Cosmos, l’ultima possessione di Andrzej Zulawski

Cosmos, l’ultima possessione di Andrzej Zulawski

August 3, 2017 0 By Simone Tarditi

Presentato nel 2015 al Festival di Locarno dove il film ha vinto il premio per la Miglior Regia, Cosmos ha chiuso la carriera e sigillato definitivamente la vita artistica di Andrzej Zulawski deceduto qualche mese più tardi a causa di un tumore. Il regista non si era più seduto dietro la macchina da presa negli ultimi quindici anni e non aveva diretto più nessun progetto cinematografico dai tempi de La Fidélité (2000).

Domandandosi chi e perché abbia impiccato un uccellino in un bosco, il giovane Witold (Jonathan Genet) ha lasciato la città dopo essere stato bocciato ad un esame e si reca ospite presso una casa abitata da una bizzarra famiglia. Gli eventi che seguono sono apparentemente indecifrabili, ma pezzo dopo pezzo il caos attorno a lui sembra trovare significato nella forma di quello che scrive. Smarrimento, una corda tesa sopra alla follia, l’equilibrio impossibile: Witold può dare e trovare un senso alle cose che gli gravitano attorno come stelle impazzite.

Di cultura non si è mai sazi e la pancia della bestia in Cosmos è gonfia di rimandi dotti, popolari ed errati al mondo delle arti: dal Teorema di Pier Paolo Pasolini al Tempi Moderni di Charlie Chaplin, al telo mare con una foto di James Dean al Nosferatu di Carl Theodor Dreyer (ah no, era Friedrich Wilhelm Murnau), da Star Wars a Luc Bresson (ah no, quello era un altro autore con un nome simile … Luc Besson!), da William Shakespeare ai più famosi stilisti di moda, da Lev Tolstoj a Stendhal, da Paul Sartre a Steven Spielberg col suo Tin Tin.

La recitazione esasperata e sopra le righe dei protagonisti di Cosmos conduce gli spettatori in quell’universo governato da forze incontrollabili tanto caro all’autore polacco. Se Zulawski gioca a citare proprio il suo film più celebrato (contorcendosi in smorfie e spasmi nella neve, il personaggio di Lena, l’attrice portoghese Victoria Guerra, rievoca i demoni d’Isabelle Adjani in Possession, ma anche quelli delle interpreti di Diabel o dell’indimenticabile Iwona Petry in Szamanka in quella che è stata la sua unica interpretazione prima di sparire nell’oblio per via dell’esperienza vissuta sul set), attraverso il suo protagonista maschile il regista tratta il tema dello scrivere come se si trattasse di quello di più vitale importanza, qualcosa da cui letteralmente dipende sia la vita di chi scrive sia l’esistenza stessa delle cose scritte, che nel film spesso e volentieri accadono proprio in virtù del fatto di essere state elaborate in parole e battute sulla tastiera di un computer.

La possessione di Witold è una forza creatrice in grado di modellare il futuro delle cose attraverso una concretizzazione della fantasia nella realtà, una crepa metafisica tra l’irreale e le verità tangibili. Il tutto, senza volerlo e constatando che ciò che accade (per quanto possa essere bizzarro, impossibile, fuori luogo, fuori tempo, frutto dell’immaginazione o preveggenza) era evidentemente destino che accadesse.

Considerazioni che si muovono di pari passo con lo Zulawski di Cosmos, invisibile artefice rabdomantico e burattinaio al suo ultimo spettacolo. Che il regista se ne freghi, come in parte sempre ha fatto, di coerenza e unidimensionalità della narrazione è chiaro fin dai primi dieci minuti di film, ma è solo verso la fine -quando ormai è palese la farsa a cui, da spettatori, ci si è prestati- che viene svelata la natura illusoria e beffarda di Cosmos, nonché il suo trionfo.

Nel film, la comunicazione tra i personaggi viaggia in direzioni oblique, si avvicina, si sfiora, non s’incontra mai completamente. Ci si parla gli uni sugli altri, gli scambi d’informazioni avvengono a singhiozzi. Tutto ciò avviene con un’intensità e una frequenza superiori al resto della filmografia di Zulawski. È come se il sovraccarico di dati avesse raggiunto la massima misura, che ormai colma è pronta a colare e mostrare l’impalcatura delle cose. Mai come questa volta, il regista mette a nudo la sua stessa creatura-film e la finzione che permea il fare cinema: verso la fine, in un vortice di avvenimenti disarmonici, Zulawski mette bene in mostra nel bosco il “carrello” su cui si muove avanti e indietro la cinepresa, desiderando rompere l’illusione cinematografica. Maschere che cadono. Interrogarsi sul volto e sul vuoto.

In quello che sembra a tutti gli effetti uno stratagemma alla Godard, Zulawski si diverte a percorrere due finali possibili con un montaggio tale per cui il futuro di Witold è di solitudine e/o di unione con Lena senza optare mai per una scelta unica. Si voglia pensare più che i due stiano insieme. Senza scannarsi. Senza morire l’uno per mano dell’altra. Senza che la narrazione ricominci da capo. Almeno una volta. Almeno per questa volta. L’ultima.

Simone Tarditi