Chronic, una cognizione del dolore

Chronic, una cognizione del dolore

August 28, 2017 0 By Angelo Armandi

Chronic, di Michel Franco, si sviluppa su due binari paralleli, suggeriti dallo stesso titolo. “Chronic”, come “cronico”, ovvero malattia cronica, ovvero il fulcro dell’esistenza dell’infermiere David (Tim Roth), che assiste malati terminali o con pesanti debilitazioni psico-fisiche. Oppure “cronico” inteso come logorante, ossessivo, svilente, ovvero l’universo privato di David, che svuotato della meticolosa perizia con cui esercita la professione, appare incerto, silenzioso, ammalato anch’esso, ma di un male tutt’altro che fisico, piuttosto etereo, profondo, inesprimibile eppure palpabile.

Questi blocchi concettuali si intersecano nella vicenda, strutturati in lunghi, taciti piani sequenza, con una camera quasi sempre immobile, a ricercare quel disagio esistenziale che s’annida tanto nell’ossessione dell’assistenza quanto nella disperata ricerca di coordinate personali da tempo smarrite. Il lavoro, per David, è l’unico mezzo per riaffermare la vita, per sfiorare una forma di senso, qualcosa che dia nuovamente i caratteri dell’identità.

Muovendosi tra l’inconsistenza diegetica di Shame e la controversa poetica dell’amore di Amour, Chronic è il perfetto esempio di cinema che osserva il mondo con discrezione, senza intervento, senza edulcorazioni, servendo il solo scopo della visione, pretendendo dallo spettatore la pazienza di accettare il realismo delle cose (l’immobilismo, le pause, la prosaicità del quotidiano, le inezie spesso sconclusionate) e lo sforzo di rielaborare percorsi mentali nei quali tutto ciò che viene narrato possa acquisire un senso logico, essendo gli eventi gettati nelle inquadrature, a rincorrere i fotogrammi, senza evidenti snodi d’intreccio, animati da dialoghi sbrindellati e laconici.

Non esistono risposte, vengono seminati dubbi, poi giunge una parvenza di comprensione, e con essa il disagio, e il confronto interiore con la potenza contraddittoria ed esplosiva dei sentimenti, e qualsiasi forma di svelamento è circoscritta alla sensibilità dello spettatore, che percepisce il senso dell’opera come piccoli echi nel silenzio.

È quindi con calma innaturale che seguiamo il bordo del precipizio su cui cammina David, a confrontarsi col passato, a rielaborare il presente, ad affrontare con inespressività un antico dolore che lo paralizza, lo plastifica nel minimalismo. È un cinema affidato totalmente agli spazi, prima ancora che ai corpi, quasi sempre dismessi, ordinari, mai animati da sottofondi musicali, spesso nemmeno da suoni, d’una banalità che vorrebbe, anch’essa, reprimere o minimizzare la sotterranea potenza delle pulsioni emotive.

In questi spazi, nella contemplazione del silenzio, vi è la chiave per accedere al disagio di una vita, a schiudere la percezione del senso di colpa. La depressione di David è vacillante, trae sollievo dall’assistenza agli ammalati, ed è l’unica via per discolparsi, per affrontare stoicamente le avversità, eppure esiste nella trama appassita dei fotogrammi un’enorme introspezione che non ha il coraggio di esprimersi, di trovare cognizione del dolore, di accettare fino in fondo che l’amore possa indurre ad uccidere.

Sono pochi elementi che scorrono e si dileguano nel corso della vicenda in brevissimo tempo, sufficienti però, ed è questa la potenza dell’immagine che non necessita di parole, a condurci nei porti poco sicuri dell’eutanasia e del suicidio assistito, elementi su cui il moralismo imporrebbe la sua direzione, se non venisse quasi inconsapevolmente scardinato da Chronic, che costringe lo spettatore a confrontarsi con il lato oscuro, amorale, viscerale, e dolorosamente vero, della propria etica.

Angelo Armandi