Venezia74: Lean on Pete, imparare ad affidarsi

Venezia74: Lean on Pete, imparare ad affidarsi

September 2, 2017 0 By Mariangela Martelli

lean on pete venezia 74In concorso per il settantaquattresimo Leone d’Oro troviamo anche Lean on Pete del regista Andrew Haigh (autore di 45 anni del 2015) tratto dall’omonimo romanzo di Willy Vlautin (musicista dell’attuale gruppo The Delines ed ex leader dei Richmond Fontaine). La trama si snoda attraverso le peripezie del quindicenne Charley Thompson (Charley Plummer) costretto a seguire i trasferimenti di lavoro del padre attraverso gli Stati Uniti. Charley è cresciuto in fretta, portando sulle gracili spalle delle responsabilità a differenza del padre Ray (Travis Fimmel) che sembra piuttosto impegnato nel districarsi tra le gonne delle cameriere (a suo rischio e pericolo). Lead on Pete non è una delle tante storie di formazione quanto la ricerca di stabilità da parte di un adolescente senza madre e con vaghi punti di riferimento: ben presto gli eventi prenderanno una piega diversa e Charley sarà costretto ad intraprendere un viaggio per trovare la zia che l’ha cresciuto ma di cui ha perso le tracce negli ultimi anni. La ricerca di una propria identità viene forgiata attraverso le sfide ed imprevisti che puntualmente gli ostacoleranno il percorso verso il luogo in cui si sente protetto.
La macchina da presa segue la corsa del ragazzo, che vediamo di spalle nella sequenza iniziale come in quella di chiusura: una strada a spirale che lo ha messo a dura prova, non distogliendolo però dal suo obiettivo. Nella prima parte del film, l’adolescente trova lavoro durante l’estate al galoppatoio di Del (Steve Buscemi) nella sua nuova città: Portland. Ciò gli permette non solamente di impiegare le giornate rendendosi utile e facendogli mettere da parte qualche spicciolo ma soprattutto di conoscere il compagno che sarà al suo fianco: il cavallo Pete ormai vecchio e zoppo che arriva sempre ultimo alle corse e di cui Del vuole sbarazzarsi.
Il ragazzo trova presto maggior conforto nell’animale piuttosto che nelle persone: prendendosene cura arrivano a fidarsi l’un dell’altro. Il cavallo diventa una presenza silenziosa a cui il ragazzo affida il racconto di ciò che porta con sè: dal proprio passato al sogno di diventare un giocatore di football passando alle amicizie troncate per i continui spostamenti ed il desiderio costante di ri-trovare la zia. Una comprensione che non ha bisogno di parole, un legame speciale che si è sviluppato sul set. L’interpretazione di Charley è realistica ed emotiva al tempo stesso: riesce a sintonizzarsi con spontaneità e a livello profondo nel dolore del personaggio, trasmettendolo su grande schermo. Il regista stesso ne è rimasto colpito fin dalla prima visione del nastro del provino: scegliere il giovane è stato quindi inevitabile. Nonostante il protagonista si ritrovi a sopravvivere agli eventi negativi che gli piombano addosso, riesce ad incontrare delle persone lungo il cammino disposte a dargli una mano e a metterlo in questo modo nelle condizioni di vedere una possibile umanità fatta anche di solidarietà e gentilezza. La compassione ha però dei limiti perché gli altri possono offrirgli un aiuto momentaneo ma non a risolvere i problemi che vanno ad aumentare: questi incontri si riveleranno essere delle piccole tappe verso la stabilità cercata. Arrivato a Denver, il ragazzo è davanti allo specchio: la polvere, il viso scavato, la cintura da stringere per tenere su i jeans che cadono… Fatica a riconoscersi in questo nuovo abito. Costretto per necessità a commettere piccoli furti come a consumare un pasto caldo alla mensa non riesce a considerarsi un homeless, come gli fa notare chi come lui, di fatto, non ha più una casa dove tornare.
La fotografia, già presente nelle scene cinematografiche all’interno del romanzo, si sviluppa in altezza anziché in larghezza. Una scelta di inquadrare i corpi all’interno degli spazi (soprattutto in esterno, nel deserto) che esalta il tema della grande America e dei suoi ambienti sconfinati. Non a caso lo scrittore Steinbeck viene citato dall’autore del libro, quest’ultimo coinvolto per la trasposizione dell’opera dalle parole alle immagini in cui apporre dei tagli è inevitabile ma l’aiuto dello scrittore è risultato fondamentale per capire cosa fosse importante non eliminare. Per la pellicola si è optato per una struttura classica, in cui prevale il binomio linearità/semplicità ( il regista Andrew Haigh non ama i flashforward e rivedere Paris-Texas di Wim Wenders gli è stato prezioso per la realizzazione del film).
In Lean on Pete predomina il bisogno di stabilità, di non fermarsi davanti agli ostacoli. La vita con i suoi imprevisti pone un freno alla corsa intrapresa dal ragazzo o costringe a zoppicare per lunghi tratti (come fa il cavallo). Non esiste un antidoto ma forse affidarsi (e fidarsi) in ciò che di buono può capitarci può essere un inizio.

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Mariangela Martelli