
Venezia74: Mother! di Darren Aronofsky, l’inconcludenza del delirio
September 5, 2017 0 By Angelo ArmandiMother! di Darren Aronofsky, in Concorso alla 74esima edizione del Festival del Cinema di Venezia. Opera infuocata, che sembra partorita da un’esigenza viscerale, incontrollata, un’impulsività irrisolta che si estrinseca nella struttura dell’horror soprannaturale. Una giovane donna (Jennifer Lawrence), moglie di uno scrittore in crisi di idee (Javier Bardem), conduce un’ordinaria esistenza tra le mura di un’enorme abitazione isolata, dotata di un’essenza vitale che muta nel tempo, si fa portavoce di angosciose allucinazioni e sembra essere in continuum con la coppia, intervenendo reciprocamente nella modulazione della psiche e della percezione delle cose.
Ciò che accade nella casa, nel corso dell’opera, è una sequela di immagini oniroidi, grottesche, a dipanare una maschera di percezioni distorte che avvolgono l’inquadratura e impediscono di osservare la realtà, intrappolando lo spettatore in una dimensione metafisica che assurge ad elemento confondente, di sospensione della logica, affinché si abbandoni la ricerca di un corso razionale delle cose e risulti impossibile districarsi dal termine dell’intreccio all’emergenza dell’elemento surrealistico.
Lontano dalla struttura classica delle precedenti opere, sembra che in Mother! esploda la rabbia, lo sconcerto, l’incredulità di Aronokfsy per il potere delle azioni umane. Non del singolo individuo, quanto della massa, del frazionamento drastico dell’intelligenza collettiva, della bestialità che si annida nella potenza degli istinti non domati dalla ragione. Infatti, tutto l’apparato soprannaturale appare come una grande allegoria delle contraddizioni dell’uomo, un concetto che, visivamente, il regista difficilmente accoglieva.
Le allucinazioni come frutto di ossessioni (Il Cigno Nero) o i deliri come sequela di disturbi mentali (Requiem for a Dream) erano vincolati al reale, ad una potenza di espressione legata al concetto, non alla forma, né alle metafore. La claustrofobia, uno degli elementi costanti del cinema di Aronofky, emergeva come identificazione immediata nel realismo della messa in scena, spesso cruda, implacabile, adesa alle superfici di corpi martoriati e menti ammalate.
La carnalità dell’horror, pur rappresentando una via preferenziale per esperire la claustrofobia, allontana dalle idee, impone alle intuizioni di trapelare attraverso le emozioni, col disagio visivo di una claustrofobia messa fisicamente in scena, ad opera di esseri umani che si accalcano nella casa, compiono azioni ordinarie, ma di massa, infestando l’abitazione, supplicando, commettendo violenza, lottando per degli ideali, soppressi dalle forze armate, assorti in luoghi di culto, intenti ad avere rapporti sessuali, a derubare, ad urlare come forsennati, ad uccidersi, in una frenetica discesa agli inferi di cui si comprende ben poco.
Il risultato finale è un coacervo di allusioni, immagini fortissime della degenerazione umana, inseriti in un intreccio horror allo scopo di darne un senso, eppure inanellate con debolezza, con momenti di parodia inappropriata, attimi di slasher incomprensibile, per evocare un disprezzo che si consuma nei sensi e non riesce a penetrare nella mente e assurgere ad un significato più potente, universale, che avrebbe conferito all’opera lo spessore che ci si attendeva dalle premesse.
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"Remembering's dangerous. I find the past such a worrying, anxious place. The Past Tense."