
Venezia74: The Third Murder, il delitto secondo Kore’eda
September 7, 2017Schermo nero, rumori di un ambiente esterno, poi la prima inquadratura raffigurante una figura (o sono due?) compiere movimenti nel buio della notte, sullo sfondo le luci di una città non troppo distante ed è già tutto ascrivibile alla poetica di Hirokazu Kore’eda (uno shot praticamente identico è presente in Nobody Knows quando i due ragazzini seppelliscono il trolley lungo le piste dell’aeroporto). Dai primi secondi di film si è già immersi nell’universo del regista giapponese, il quale giocherà per le successive due ore con le aspettative degli spettatori.
Addentrarsi troppo nella trama di The Third Murder è come volere srotolare e riarrotolare un filo attorno al suo rocchetto senza riuscirsi. C’è un omicidio appena avvenuto e ci sono dei delitti compiuti in passato e che ad esso possono essere ricondotti. C’è un colpevole, che confessa tutto. C’è un avvocato che è interessato solo a ciò che la verità può offrire al fine di limitare la pena del suo cliente, non a tutto quello che essa potrebbe rivelare. Ci sono dubbi, perplessità, ammissioni, interminabili incontri dentro al carcere, prove, cavilli giudiziari, finte persone innocenti. La soluzione del caso, apparentemente a portata di mano, è in realtà impossibile da raggiungere.
Con The Third Murder, in Concorso alla 74ma Mostra del Cinema di Venezia, Hirokazu Kore’eda presenta un’opera che si sviluppa in un duplice verso opposto: da un lato è chiara quanta maestria nell’uso degli attori e quale perfezione formale abbia ormai raggiunto dai tempi di Still Walking, il film inaugurante una fase più matura della sua carriera; dall’altro lato, invece, le ambientazioni innevate, le vite decise a prescindere dalla propria volontà e il senso di solitudine ricordano quelle di Maborosi, il suo primo lungometraggio di finzione, tra l’altro premiato proprio al Lido nell’edizione del 1995.
Chi si ostina a definire Kore’eda l’erede di Ozu non ha capito nulla del regista oppure non ha mai visto nessun suo film, fatta eccezione per un paio di titoli, e ha cominciato a ripetere pappagallescamente questa considerazione sbagliata fino a quando non se n’è convinto. Non deve stupire, pertanto, che Kore’eda abbia deciso di scrivere, girare e montare un film così drammatico. Con Hana aveva dimostrato di essere in grado di fare un film storico, con Air Doll di poter raccontare una storia fantastica tratta da un manga, con Distance di osservare da vicino la disorganizzazione di una setta suicida utilizzando uno stile docu-mockumentaristico. Seppur lontano dalle famiglie incasinate e in cui tutto (primo o poi) si aggiusta grazie alle quali si è fatto conoscere, l’autore di The Third Murder offre uno spaccato umano in cui è la stessa identità individuale ad essere messa in discussione: i personaggi non sopportano le proprie vite, chi sono diventati, chi hanno frequentato, non si riconoscono in se stessi (pura potenza registica le immagini dei volti, dell’avvocato e del suo cliente, che si riflettono dentro se stessi durante le visite in carcere) e passano il tempo ad aprire porte, finestre e finestrini per cambiare l’aria, ossigenare gli ambienti, non dover sentire neanche il proprio odore.
In più, fatto inedito all’interno della filmografia di Kore’eda, si respira un senso di sfiducia e sconforto verso un sistema giudiziario ormai sballato, senza più un orizzonte legislativo a cui poter fare riferimento. Lo stesso team di avvocati sembra tutto tranne che affidabile: tre teste che pensano in modo diverso, ma che lavorano all’unisono in vista di una meta comune, anche a costo di venire meno alle proprie convinzioni d’innocenza o colpevolezza riguardo i loro clienti, all’interno di un ufficio di bogartiana memoria (quello celeberrimo, di Spade & Archer, mostrato in The Maltese Falcon). Non è una semplice citazione a un classico del genere noir, Kore’eda vuole mostrare quanto fallace sia il sistema giudiziario a partire proprio da chi esercita la professione dell’avvocato, il cui luogo di preparazione alla difesa di un caso pare più essere una location per mettere in piedi un teatrino di dialoghi che suonano finti proprio come quelli pronunciati da un detective privato uscito direttamente dai 40s. Finzione dentro la finzione, ancora la consapevolezza che nessuna verità possa essere mai raggiunta perché, in pratica, essa non esiste proprio.
Con The Third Murder, chi finora ha amato Kore’eda si troverà di fronte un film diverso rispetto ai precedenti, ma pur sempre ricco di quegli spunti narrativi già ben rodati in passato (ancora una volta, il rapporto tra genitori e figli è il cuore della vicenda), per chi invece non ha visto nient’altro del regista, e al Lido ha avuto modo di recuperare questa sua ultima pellicola, si sarà forse sentito disorientato di fronte ad un puzzle di cui, almeno ad una prima visione, è impossibile combaciare tutte le tessere. Di certo, è presto detto che, per quanto riguarda la psiche dei protagonisti e la costruzione della vicenda, The Third Murder sia il film più complesso che Kore’eda finora abbia fatto. Già questo elemento costituisce di per sé un plauso e una sorpresa.
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