
Venezia74: Una famiglia, il calvario della vendita dei neonati
September 7, 2017Candidato al 74esimo Leone d’oro, il secondo lungometraggio del regista italiano Sebastiano Riso (dopo l’esordio nel 2014 con Più buio della mezzanotte) è un film che farà discutere per la tematica affrontata: il mercato di neonati nel nostro paese. Ispirato a una storia vera (dalle intercettazioni di Mondragone) la sceneggiatura (curata dal Riso insieme a Stefano Grasso ed Andrea Cedrola) traspone su grande schermo la storia della coppia composta da Maria (Michaela Ramazzotti) e Vincent (Patrick Bruel).
La loro unione è una dipendenza fatta di passione morbosa, amore e violenza in un segreto che entrambi nascondono al mondo esterno. L’adozione che è la premessa del film e non la sostanza, si sviluppa dal bisogno e necessità delle vicende/calvario a cui tante famiglie ricorrono per soddisfare il desiderio di avere un figlio da crescere. Ottenere i requisiti giusti per essere genitori da parte di omosessuali o singol non è così semplice per la legge italiana nè per i tempi della burocrazia. Si tratta di un diritto negato che viene aggirato pagando grosse cifre per acquistare un bambino di altri. Con l’aumento di questo tipo di richieste, sono i nostri protagonisti a rispondere alla domanda, intraprendendo un progetto che consiste nel far portare avanti la gravidanza alla donna dopo aver trovato dei potenziali acquirenti. Maria si è ritrovata a svolgere un “lavoro” che non ha deciso, ma ne fa parte: schiava di una dipendenza verso il compagno riuscirà a riappropriarsi del proprio corpo dopo una lunga meditazione, iniziata dalla prima scena in metropolitana e ottenuta con la consapevolezza e ribellione del finale. Michela Ramazzotti è qui alla sesta interpretazione di un ruolo materno, una “mater dolorosa” ancora bambina che si stringe le braccia nel maglione largo per farsi forza e come gesto/surrogato mai dato ai suoi bambini nel corso degli anni.
L’attrice, come ha dichiarato nella conferenza stampa, rincorre questi ruoli complicati da interpretare: vuole dare voce a donne subalterne piuttosto che a delle eroine perché è essenziale difenderle. È con rabbia, coraggio, fragilità e istinto che Maria si muove a piccoli passi verso una liberazione da giornate trascorse tra le quattro mura domestiche alternate da sesso/gravidanze/espulsione e vendite di figli. Fondamentale per lei, come per il protagonista maschile oscuro e violento, è stato il rapporto di completa fiducia e complicità instaurata con il regista. Sebastiano Riso è riuscito, durante le poche settimane di riprese, a dare forza e autostima ai suoi attori, lasciandoli allo stesso tempo liberi di esprimere il loro lato più complesso, profondo e primitivo. Anche il direttore alla fotografia (Piero Basso) ha saputo creare quest’atmofera di indipendenza sul set, muovendosi a 360 gradi nello spazio intorno ai personaggi. Il nucleo di Una famiglia non è incentrato nelle madri/surrogato nè tanto meno negli uteri in affitto ma nell’inferno di Maria e di chiunque si ritrovi coinvolto in questo tragico mercato nero. Le reazioni da parte dei personaggi non sono tutte uguali: un’altra coppia importante è quella dei due omosessuali, il cui gesto finale corre il rischio di non essere “politically correct”. L’occhio del regista non vuole dare un giudizio su chi o cosa sia “una famiglia” quanto piuttosto sul differente modo di affrontare la vita che si è scelta.
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