
Venezia74: Zama e il carcere esistenziale
September 7, 2017Zama è un quadro bucolico sul Latinoamerica del XVII, dove la natura primitiva e selvaggia diviene protagonista principale, esaltata dalla bellezza e dalla crudezza nel confronto con l’essere umano.
Presentato Fuori Concorso alla 74ª Edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Lucrecia Martel, esordisce al Lido con il suo quarto film; la regista argentina, in relazione alle osservazioni avanzate sulla propria modesta ed esigua filmografia, ha affermato di non trovarsi in competizione con chi è molto prolifero, poiché ciò che cerca è la cura e la dedizione che dimostra nella realizzazione dei suoi prodotti, accompagnandoli in ogni singola fase produttiva.
Inoltre, i cinque anni impiegati per la realizzazione di Zama, rispecchiano i tempi medi richiesti per la lavorazione di un prodotto in un paese come l’Argentina.
Lucrecia ricorda ancora dell’ormai lontano 2012, quando alla berliniale presentava Zama per la ricerca di produttori; una domanda che costantemente le avanzavano era in quale lingua avrebbe realizzato il film. Lei ha portato avanti, ostinatamente, la propria idea di creare un prodotto in spagnolo; se fosse scesa a compromessi con le numerosi richieste di convertire il soggetto in lingua inglese, facilitando così il percorso per reperire fondi, si sarebbe abbandonata anche lei al fagocitante mercato hollywoodiano, che possiede una forma di monopolio in questo settore, concedendosi alle grandi major. Per tale motivo, il percorso realizzativo ha richiesto un tempo molto più lungo. Da qui ha inizio un viaggio internazionale che vede il coinvolgimento del prodotto in una coproduzione latinoamericana che interessa Argentina e Brasile ma anche Stati Uniti (Danny Glover) oltre ad un contributo europeo di cui fanno parte Francia e Spagna (Pedro Almodóvar). Viene da pensare ad una reciproca collaborazione tra colonizzatori e colonizzati, in un reciproco scambio di interessi. In questo modo, Lucrecia Martel ricorda quanto sia difficile fare un film ambizioso che non sia in lingua inglese proprio perché il mercato è brutale e pilota la produzione.
Il film biografico si ispira ad uno dei classici moderni della letteratura latinoamericana, omonimo romanzo dello scrittore Antonio Di Benetto, pubblicato nel 1956, rappresentando un punto di svolta nella letteratura novecentesca argentina; il prodotto filmico si vuole però distanziare rispetto alla novella che rappresenta un soliloquio dell’ufficiale spagnolo. Il testo cartaceo privo di grandi descrizioni paesaggistiche e naturali entra in contrapposizione alle lunghe narrazioni visive che inducono ad uno stato immersivo dello spettatore.
Zama, ambientato nel XXVI secolo, tratta un periodo circoscritto della vita dell’ufficiale Don Diego Zama (Daniel Giménez Cacho), che gode della fama di essere “el corrigidor” della Corona di Spagna; il film si occupa di un periodo del suo incarico in Paraguay, focalizzandosi sul declino individuale in qualità di persona pubblica che privata.
Zama, uomo giusto, retto, un uomo di legge, è un personaggio oscuro e introspettivo; si trova a vive un esilio forzato, un malessere personale causato dalla lontananza dalla propria moglie (con la quale a momenti si trova a parlare, attraverso l’escamotage della voce pensiero) e dai figli, solo in un continente estraneo e primordiale dove si risvegliano istinti ancestrali. È una persona che vive un malessere esistenziale poiché si sente abbandonato ed esiliato dalla propria monarchia, ritrovandosi a vivere all’interno di un carcere interiore fatto di lunghi silenzi, attese e riflessioni.
È un film d’epoca che vuole distaccarsi dalle strutture classiche del genere, tipico delle produzioni europee, presentandosi come prodotto anticonvenzionale e dal punto narrativo, in parte lo è. Sono i tagli netti e bruschi, quasi disturbanti, della struttura narrativa che privano il film di una sua linearità attraverso salti temporali, quasi a riflettere frame di memoria sconnessi, mostrando allo spettatore solo ciò che la regista vuole farci conoscere del tormentato e passivo “corrigidor”.
Zama è caratterizzato da una natura voyeuristica, un guardone, non solo nei confronti dei corpi nudi delle donne ma anche rispetto delle realtà circostanti, riflettendo un disagio irreversibile che sembra non aver risoluzione.
Nell’intero prodotto, la morte è una presenza silenziosa che aleggia nella quieta desolazione di questa natura sconfinata e rigogliosa; ritroviamo, così, una silenziosa e mistica vicinanza al cinema del russo Aleksey Federčenko, tra cui spicca il titolo Silent Soul – Ovsyanki (2010). É attraverso l’elemento naturale dell’acqua che si manifesta la stretta connessione tra mondo dei vivi e quello dei morti, separati da un sottile velo impercettibile, un confine labile che si confonde nella vastità dell’oceano; la morte giunge via mare, come avviene per l’Orientale e suo figlio, entrambi potatori di malattia.
Il film pone una certa attenzione alla cura dell’aspetto audio, riflettendo momenti di confusione o di malessere dell’ufficiale; Lucrecia decide di farci sentire attraverso Zama, in un tentativo di immedesimazione con il personaggio, soffermandosi sul carattere disorientante di questi frammenti.
Non condivido pienamente le scelte registiche intraprese in Zama risultando un prodotto principalmente attento alla tecnica; tuttavia, la fotografia è molto apprezzabile ed emozionalmente sentita, grazie al bel lavoro realizzato da direttore della fotografia Rui Poças che con un impiego ridotto di luci, pannelli e veli, cerca di ristabilire un legame di purezza con l’immagine reale.
Meravigliosa l’inquadratura a camera fissa, in totale, su una pianura desolata dominata da palme che viene attraversata da Zama e dai suoi uomini a cavallo; se non fosse per il loro movimento, sembrerebbe di trovarci difronte ad una pittura ad olio ottocentesca. Impressionante è il richiamo all’opera videoartistica dello statunitense Bill Viola, The Path.
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