
Venezia74: Intervista ad Alireza Khatami, regista de Los Versos del Olvido
September 10, 2017Non sempre si ha la possibilità d’intervistare una persona non solo disponibile e gentile, ma anche estremamente brillante e desiderosa d’instaurare un dialogo con chi gli sta di fronte invece che rispondere in maniera meccanica alle domande che gli vengono poste. Questo è il caso di Alireza Khatami, regista iraniano de Los Versos del Olvido, suo lungometraggio d’esordio (girato in Cile) e vincitore del premio Orizzonti per la Migliore Sceneggiatura alla 74ma Mostra del Cinema di Venezia.
L’intervista che segue qui sotto si snoda attraverso i punti cardine del film (il tema della memoria, il concetto dell’oblio, l’importanza della figura delle balene) e arriva a toccare elementi al di fuori di esso, dalla pittura alla politica, dalla filosofia alla psicanalisi, da Béla Tarr a Buster Keaton.
Tutte suggestioni diversissime tra loro e frutto di un’opera come Los Versos del Olvido che (si spera) potrà far interrogare anche le future generazioni di cinefili, con la speranza che la vittoria di questo prestigioso premio al Lido possa far conoscere questo film in tutto il mondo.
Vi ricordiamo che QUI potete trovare le nostre opinioni riguardo il film.
Ciao Alireza, è un po’ una consuetudine fare i complimenti all’autore di un film che s’intervista, ma noi siamo veramente rimasti stupefatti dalla bellezza assoluta de “Los Versos del Olvido”. Non riusciamo a capacitarci del fatto che questo sia il tuo primo lungometraggio perché è un’opera perfetta per quanto riguarda la regia, la scrittura.
Vi ringrazio, significa molto per me. È un onore essere qui a Venezia.
Ok, adesso possiamo iniziare l’intervista con la prima domanda.
[Ride] Certo.
Ci puoi spiegare un po’ più nel dettaglio come mai la figura della balena compare ripetutamente nel film. Ci sono balene spiaggiate, una balena volante, una balena dipinta fuori da un’abitazione … persino l’orecchino che il protagonista trova a terra ha la forma di una balena.
Le balene sono creature maestose e per migliaia di anni hanno catturato l’immaginazione degli esseri umani. I marinai navigavano nei mari e vedevano queste bestie straordinarie e quando tornavano sulla terraferma raccontavano alla gente di quanto fossero gigantesche. Le balene sono come dei mammiferi come noi: respirano, nutrono i loro figli, hanno una grande memoria. Sono i motivi per cui questi cetacei si sono ritagliati il loro spazio all’interno della Letteratura, a partire dal Vecchio Testamento con Giona che si rivolge a Dio mentre si trova nella pancia di una balena fino ad arrivare a Moby Dick di Herman Melville o Pinocchio di Carlo Collodi. Nel mondo della Poesia la figura della balena è spesso usata per rappresentare ciò che non si conosce, ciò che non può essere sondato, ciò che non può essere compreso. Per il mio film, volevo qualcosa che racchiudesse in sé l’elemento della meraviglia. Quando scrivo, io non vado necessariamente alla ricerca di simboli, ma cerco di rappresentare l’esperienza di un dato momento. È come se avessero chiesto a Kandinskij cosa significassero i suoi quadri, lui avrebbe risposto che non sapeva dirlo e che contava solo l’esperienza di guardarli. Io ho costruito il mio film attorno a questa idea affinché si creasse la possibilità per molteplici interpretazioni. Per alcuni la balena può essere la metafora della Morte, per altri della Memoria. Mi piacciono entrambe queste interpretazioni, può essere tutte e due le cose. Inoltre, il mio desiderio era quello di fare un film che si prestasse a essere rivisto più volte e che a ogni volta potesse offrire qualcosa di nuovo allo spettatore. Per esempio voi avete notato alcune delle balene, ma ce n’è molte di più sparse per il film …
Ah sì? Bene!
[Ride] Sì! Non solo altre balene, ma giochi intertestuali con materiali narrativi esterni al mio film, come per l’appunto Moby Dick o Pinocchio. Non aggiungo altro perché voglio che questi riferimenti vengano colti a una seconda visione. La mia speranza è che Los Versos del Olvido possa essere visto fra dieci anni e abbia ancora qualcosa da offrire. A volte si guardano film e una settimana dopo ce li si è già dimenticati, ho cercato di far sì che non accada la stessa cosa col mio. Ci sono voluti sette anni perché riuscissi a fare questo film perciò spero che almeno viva per altri sette anni!
Questo è un aspetto che ci ha molto interessati. Come mai c’è voluto così tanto tempo perché il film venisse fatto?
Fare un film come questo è già di per sé complicato, ma per me lo è stato ancora di più perché sono iraniano, ma non vivo in Iran. Ho dovuto fare richiesta per essere inserito all’interno di co-produzioni europee, che in linea di massima lavorano in maniere particolari. È stato difficile trovare soldi in Europa e poi è stato deciso di usare questi fondi in Cile, dove è stato girato Los Versos del Olvido. Ci son stati molti problemi di natura tecnica, ma il mio team di produttori è stato molto abile a farcela. Da un certo punto di vista sono grato che ci sia voluto così tanto tempo perché mi ha permesso di riscrivere molte volte la sceneggiatura. Io credo molto nello scrivere e nello riscrivere più e più volte il materiale su cui lavora. Ho riscritto di questo film tantissime volte …
Lo faceva anche Stanley Kubrick.
Lo prendo come un complimento. Vedete, io insegno cinema e i miei studenti a volte mi dicono di aver riscritto una sceneggiatura per un cortometraggio tre volte, come se fosse una cosa fuori dall’ordinario. Io ho rimaneggiato la mia sceneggiatura per ben 43 volte … io credo che ogni scrittore possa imparare dallo scultore Michelangelo Buonarroti. Lui riusciva a vedere delle figure dentro un grosso pezzo di marmo e poi, frammento dopo frammento, creava dei capolavori dell’arte. Un errore poteva significare rovinare tutto perciò, secondo me, la scrittura e la riscrittura funziona allo stesso modo: fai qualcosa, poi ti fermi, torni indietro, vedi se funziona oppure no.
Il tuo film gira attorno all’idea della memoria e del ricordare. Siamo curiosi di sapere se questi elementi rappresentano un’ossessione per te, soprattutto per quanto riguarda il binomio Uomo-Morte che si esplica anche nel mostrare corpi senza nome recuperati dall’oblio dopo essere stati dimenticati.
Io non cerco dei temi che mi appassionano, succede l’inverso: certe tematiche mi “scelgono” e di colpo mi trovo ossessionato da qualcosa. Ovunque io guardi, vedo corpi senza nome. Dai migranti che affogano nel Mar Mediterraneo o di tutte quelle persone che scompaiono in Canada o in America. Non m’interessano le questioni politiche in senso stretto, mi affascina di più indagare in maniera filosofica del perché le cose siano come appaiono nella società. Non credo ci siano grandi differenze tra una nazione e un’altra, siamo tutti umani alla fine. Dal mio punto di vista, la resistenza nei confronti del Potere inizia nel momento in cui si mostra che qualcosa sia vero e con il ricordare. Io inizio da qui. Non ho interesse per la cosiddetta Giustizia, i processi, per me finché c’è memoria c’è speranza per un cambiamento in futuro. Eventi terribili accadono non solo nelle dittature, ma anche sotto le democrazie. Portare alla luce la verità è la più grande forma di resistenza di cui disponiamo in questo momento storico. Il protagonista del mio film non fa nulla di radicale, non va alle manifestazioni, non contesta nessuno. Lui ricorda e condivide i ricordi, racconta episodi delle persone con cui è entrato in contatto. Ricorda tutto, tranne i nomi.
Nel film ci sono elementi surrealisti che s’innestano in un tessuto narrativo assolutamente realistico. Ci viene in mente la mano gigantesca nel deserto, la scena della pioggia nell’ufficio postale o quella delle api che fuoriescono da una tomba, oppure quando il protagonista continua a scrivere sul suo diario anche se è finito l’inchiostro nella sua penna.
Ho imparato molto dagli artisti surrealisti, mi vengono in mente Salvador Dalí, Federico García Lorca, Luis Buñuel. Persone come loro hanno offerto uno specchio per guardare alla realtà dopo averla filtrata. Uno dei miei film preferiti è Un Chien Andalou. Quello che ho cercato di fare è stato portare questi insegnamenti in un territorio nuovo perché non mi piace copiare e basta. Questo significa per me sperimentare. Io ho preso in prestito da Dalì questo desiderio che aveva di espandere la realtà in qualcosa di più grande. È per questo che con Los Versos del Olvido ho voluto inserire elementi fantastici all’interno di una storia realista. Tra l’altro, quella mano gigante esiste per davvero, è una scultura che s’intitola Mano del desierto e si trova in Cile. Le api che hanno fatto un alveare dentro una tomba? C’erano per davvero, non ho creato io quell’immagine, l’ho solamente filmata. In casi come questi il realismo si fonde con il surrealismo, diventano la stessa cosa. Ci sono molte cose della vita quotidiana che superano il mondo della finzione, diventano super-realtà. Sono strane da vedere, ma esistono, sono lì.
La stessa architettura del cimitero mostrato nel film è davvero particolare.
In realtà non è un solo cimitero, ma la combinazione di quattro differenti perché non riuscivo a trovarne uno che rispecchiasse la mia visione. Io e il mio team abbiamo voluto che questo luogo sembrasse davvero unico nel suo genere.
Dopo la proiezione di ieri pomeriggio in sala Darsena, hai accennato al fatto che secondo te fare cinema non è un atto rivoluzionario. Perché non lo consideri tale?
Mi piacerebbe fare la rivoluzione, ma non credo che girare un film sia il giusto modo. Il Marxismo insegna che l’arte è castrata perché legata al mercato. Nello specifico, il cinema ha bisogno di generare un utile per esistere, i film devono essere venduti per rientrare dei costi di produzione e per guadagnare qualcosa di più. I festival cinematografici servono anche a questo. Una volta Béla Tarr ha detto che fare cinema è un mestiere per borghesi … e ha ragione, sono totalmente d’accordo con lui. Bisogna non fare finta di essere ingenui, così stanno le cose. Non c’è nulla di rivoluzionario nel fare cinema. Tutto ciò è molto triste, ma è meglio accettare questa logica fin da subito. Non possiamo andare in giro a dire che con un film rendiamo migliori le vite delle persone. Con questo non voglio dire che il cinema non aiuti, ma ho i miei dubbi che qualcuno guardi un film e poi vada per strada a gridare contro Silvio Berlusconi o un altro politico. Non funziona così. Sono più interessato ad una persona che guarda il mio film e lo fa stare meglio lungo i suoi 92 minuti di durata. È quella la porzione di tempo che m’interessa. Sono consapevole che non cambierò per sempre le loro vite, ma se durante quei 92 minuti riesco a farli commuovere o sorridere e poi, due settimane dopo aver visto il mio film, mentre lavano i piatti si ricordano anche solo una scena, si fermano a pensarci e poi riprendono con le loro vite, ecco che sento di aver fatto il mio lavoro.
L’importanza della memoria di cui parlavamo prima …
Sì, è in un momento del genere che sento di aver fatto qualcosa d’importante col mio film. Le rivoluzioni avvengono negli anni, non con un film. È una cosa molto semplice andare ad una conferenza e dire che il cinema possa cambiare il mondo, ma la realtà è che non è così.
Sempre ieri pomeriggio hai detto che girare questo film è stata per te un’esperienza catartica. Invece che andare da uno psicanalista hai deciso di fare cinema. Questa tua dichiarazione ci ha colpito molto.
Scrivere è un processo particolare. Si scrive per comunicare qualcosa che non si riesce a dire. Lo psicanalista Jacques Lacan diceva che il desiderio è sempre qualcosa legato all’impossibile. Se qualcosa è possibile non è più un desiderio. Si tratta di qualcosa che ci spinge da dietro e che non conosciamo. Scrivere per me significa provare a dire qualcosa che non sono normalmente in grado di dire. Ecco perché ho inserito quella scena in cui il mio protagonista continua a scrivere sul suo diario anche se l’inchiostro è finito. La penna non scrive più, ma lui continua a scrivere. Se ci penso a fondo, credo di non essere riuscito a dire tutto quello che volevo in questo film e questa è una cosa che accumuna molti registi. Per tale motivo fanno un sacco di film … perché vogliono disperatamente dire qualcosa, ma non ci riescono. Io mi sento in colpa ogni volta che sento le notizie delle persone che muoiono nel Mediterraneo dopo essere cadute in mare. Quello che cerco di fare con la scrittura è trovare l’origine di questo senso di colpa. Provo a scoprire cosa mi sta succedendo, cosa sta succedendo a tutti noi. Il cinema è tutto quello che conosco ed è quello che cerco di fare.
“Los Versos del Olvido” è un film che racconta una storia facendo poco uso delle parole, le sole immagini parlano già di per se stesse. Potrebbe funzionare benissimo anche film muto. Cosa ne pensi?
Il mio primo cortometraggio, quello che mi ha portato un po’ di fama, è completamente muto. Durante la mia infanzia in Iran ho guardato soprattutto i film di Charlie Chaplin, Buster Keaton, questi son stati i miei primi punti di riferimento cinematografici. Secondo me, Tempi Moderni o The General sono tra i più grandi capolavori della storia del cinema. Sono dell’idea che tutto quel che si può raccontare solo attraverso le immagini non dovrebbe avere dialoghi. Noi andiamo al cinema per vedere qualcosa, non per sentire qualcuno parlare … a quel punto tanto varrebbe stare a casa ad ascoltare la radio. A volte quando guardo un film in cui i personaggi non fanno altro che parlare mi sembra di andare in chiesa a sentire il sermone di un prete.
(Intervista ad Alireza Khatami condotta da Simone Tarditi e Angelo Armandi in data 4 settembre 2017 presso il Club 74 all’interno del Palazzo del Cinema, Lido di Venezia. Un ringraziamento particolare a Laurin Dietrich per la disponibilità nell’organizzare questo incontro)
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