Venezia74: My Generation, Michael Caine racconta la sua swinging London

Venezia74: My Generation, Michael Caine racconta la sua swinging London

September 11, 2017 0 By Mariangela Martelli

my generation michael caineMy generation è il documentario del regista David Batty, presentato fuori concorso in questi giorni alla mostra del cinema di Venezia. Il nucleo centrale del film risiede nella storia personale vissuta nella Londra anni ’60 da un testimone (e qui protagonista) d’eccezione: Michael Caine (che abbiamo avuto il piacere di avere in Sala Grande durante la proiezione).
Le 1500 ore di filmati d’epoca ed interviste, visionati durante i quattro anni di ricerche d’archivio, hanno messo a dura prova il regista durante la fase di montaggio: quali immagini tagliare e quali utilizzare per ricreare l’atmosfera di quel tempo? I preziosi frammenti sono ricchi di aneddoti anche della carriera del narratore Caine, tasselli messi insieme poco alla volta per comporre la struttura di My generation. Le date e i nomi citati si limitano all’essenziale perché alle liste enciclopediche si è preferito puntare sulle sensazioni di chi la swinging London non solo l’ha vissuta ma plasmata. La macchina da presa è a mano, lo stile non è pulito: i graffi delle pellicole non sono stati eliminati, anzi vengono esaltati per essere il più realistici e fedeli possibili alle sequenze di bassa qualità che erano trasmesse in quel periodo.
Tra una sequenza di provini e spot pubblicitari, Michale Caine precisa sul fatto che tutti i coetanei che frequentava dai tempi del teatro, sono riusciti a diventare famosi e a lasciare una traccia dietro di sè: la “vera rivoluzione” è stata vedere come questi talenti siano emersi dalla classe operaia.
Veri e propri “ working class heroes” che hanno saputo cavalcare l’ondata del mutamento, coniugato con la giusta tempistica che gli ha concesso di esprimersi in libertà, arrivando così ad affrancarsi dalla rigida etichetta dell’establishment.
Caine ricorda di come sarebbe stato impossibile per lui realizzare il sogno di diventare attore (che aveva dall’età di dieci anni) proveniendo da un background non elitario (la madre era domestica, il padre vendeva pesce al mercato) se fosse nato nel decennio precedente. La rigida società inglese, attenta più all’apparenza che alla sostanza, rendeva di fatto impossibile una mobilità di classe ma la scossa che subirà dalle fondamenta si estenderà in breve tempo, diversificarsi nel mondo dell’arte a 360 gradi: dalla musica (con i Beatles, Who, Rolling Stones e David Bowie, citando le stars intervenute nel documentario) al teatro (“Look back in anger” di John Osbourne è stata la prima rappresentazione su palcoscenico della classe operaia) passando per la moda (la designer Mary Quant o l’icona Twiggy: la prima modella che parlava il dialetto cockney) per arrivare alla fotografia “alla Blow up” (sintetizzata nel trittico: Donovan, Duffy e Bailey). I ragazzi non trovavano ciò che volevano e quindi lo creavano: è nata in questo modo la cultura popolare inglese. Il passaggio dal grigiore post seconda guerra mondiale ai colori psichedelici della pop art viene cantato nelle nuove canzoni trasmesse dalla celebre emittente radiofonica “pirata” a bordo della nave Caroline (immortalata nella pellicola del 2009 I love radio rock di Richard Curtis). I presentatori di prima (in giacca e cravatta) dovranno fare i conti con l’arrivo del pop e del rock, sbarcato dall’America di Elvis e sviluppato dagli astri nascenti della nuova musica britannica. Paul McCarthy, ricordando un episodio capitatogli in taxi, riassume questa profonda svolta riconoscendo che la musica pop è la musica classica di adesso.
Michael Caine, che nei sixties era il più anziano del gruppo ( nonostante avesse 33 anni) e si sentiva un po’ “il nonno” della situazione, ripercorre il parallelo della propria storia d’attore con l’ascesa della generazione cockney. Nel film Zulu, che lo ha lanciato nel cinema, veste i panni di un ufficiale “per caso”: dopo aver sostenuto il provino per il ruolo di un soldato, viene invece preso per la parte che si accordava maggiormente alla sua statura e camminata: un cambio di classe/fittizio impensabile se il regista fosse stato inglese. Successivamente è arrivato il film Alfie in cui per la prima volta il protagonista proviene dalla classe operaia. Superfluo dire che nel documentario di Batty ascoltiamo una colonna sonora “a tema”: da“Waterloo sunset” alla “My generation” degli Who passando per Rolling Stone ed a “Tomorrow never knows” dei Beatles… Note che scandiscono la narrazione in tre atti. Nel primo, intitolato “Qualcosa nell’aria” conosciamo il background di una generazione che ha fatto la storia è che amava condividere le influenze ricevute dandosi appuntamento in locali diventati cult (come il celeberrimo “The Cavern club” di Livepool). Ma anche di come il nostro protagonista abbia adottato il cognome Caine trovando ispirazione dalla locandina del film con Bogart “L’ammutinamento del Caine”. “Aggirare i divieti e trovare un modo per fare lo stesso ciò che volevano” è il motto che ci porta al secondo atto: “mi sento libero” dedicato alla scena artistica in cui largo spazio viene occupato anche dalle ragazze in minigonne e ai capelli corti lungo le vie di Carnaby Street. Infine, dopo l’intermezzo beatlesiano di “Strawberry fields” giungiamo all’ultimo atto: “non tutto era come sembrava” in cui viene esplorata la dipendenza dalle droghe nelle giovani generazioni, su cosa leggono (Huxley con “Le porte della percezione” in primis) e delle anfetamine che i gruppi assumevano a manciate per continuare lo show più giorni di seguito senza fermarsi. Un vortice frenetico che si arresta con la notizia/scandalo di Marianne Faithfull finita in prima pagina per overdose, emblema di come ogni avanguardia riesca a consumarsi in poco tempo. Adesso è il cambiamento ad avere preso il sopravvento sui suoi artefici.

Mariangela Martelli