
Californication, morire in un mare di passere insipide
October 25, 2017Più di una recensione, meno di un tributo, un fiume di parole per quel Californication, serie tv andata in onda su Showtime tra il 2007 e il 2014. Al timone della nave, il capitano Hank Moody, interpretato divinamente da David Duchovny, una sorta di Charles Bukowski moderno, scrittore col vizio del fumo e del bere, una musa, Karen, con cui continuamente si avvicina e si allontana, un mare di donne con cui andare a letto ma il cuore avrà inciso sempre il suo nome e Rebecca ‘Becca’, la figlia che ha avuto da Karen, come da prassi, vive in questo Limbo di genitori scoppiati e troppo matura per la sua età, ma ne vedremo la totale evoluzione, in piena adolescenza durante la prima stagione.
La serie è stata ideata e scritta da Tom Kapinos. Qualcuno potrebbe aver già sentito questo nome. Sì, tolto Californication, il suo primo grande successo televisivo è stato, inaspettatamente, Dawson’s Creek. Quindi come fare a passare da un teen drama ad un serial così eccessivo, ilare ma anche molto intelligente?
Lo stesso Kapinos ha sempre definito Dawson’s Creek “un terreno dove fare una prova generale”. Il fatto che ad oggi la serie è presa di mira da meme, oltre che ad essere invecchiata malissimo, ne è quasi un testamento.
Perché queste parole riguardo una serie, nel giusto e nello sbaglio, bistrattata da molti? Quasi un invito a recuperarla se non l’avete vista, in caso contrario, una giusta riflessione su lodi e critiche complessive.
Lo spunto narrativo, mai celato e abbastanza palese, come già riportato sopra, è quello di Charles Bukowski, dentro e fuori le sue pagine. Hank nasce in una famiglia con una madre buona, un padre ingrato, fedifrago, ma dal cuore d’oro e le sue tre sorelle – che mai vedremo nello show ma ne sapremo l’esistenza. Tutto questo porta il giovane Hank a scrivere finché nell’immaginario della serie, non verrà notato da Bret Easton Ellis (celebre romanziere, autore di American Psycho, Meno di Zero, Le regole dell’attrazione ecc.) che alla domanda di quale sia uno dei migliori emergenti pulp postagli dal giovane agente letterario Charlie Runkle, l’autore non citerà uno dei racconti brevi dello stesso Moody. Da qui il successo, tre romanzi best sellers e la versione cinematografica dell’ultimo “God Hates Us All” che si trasforma, in un film romantico e sdolcinato. Da qui inizierà la storia televisiva di Hank Moody, trapiantato dalla sua amata New York nell’odiosa California per seguire la produzione del film e attendere le nozze. Sì, le nozze della madre di sua figlia con l’editore Bill.
Californication è facilmente riconducibile in quello spazio metafisico del “o lo ami o lo odi”. Vie di mezzo non ce ne sono. Show sempre accomodante con il pubblico maschile, con un personaggio principale con una verve autoironica ma anche libertino, ancor più di un Bukowski (il fatto che si chiami Hank, come il protagonista-pseudonimo dello stesso Bukowski, Hank Chinaski, non è assolutamente un caso) potremmo quasi identificarlo come un nostrano Vittorio Sgarbi.
Sette le stagioni che ne hanno contraddistinto la storia televisiva e per parlarne al meglio è necessario dividerle in due.
La prima parte che comprenderà le prime quattro stagioni e la seconda parte, che abbraccerà le ultime tre.
Con un percorso narrativo ben predefinito a stagione (in ordine cronologico: il matrimonio di Bill e Karen, la biografia di Lew Ashby, l’insegnamento in una scuola privata e il processo) le prime quattro stagioni sono il fulcro di quello che volesse raccontare e mostrare la serie: Hank muore inevitabilmente in un mare di passere insipide. Il modus operandi è sempre quello, vede una donna, magari c’è anche l’intensa e lui rimane sempre affascinato da una curva, un sorriso, un modo di portarsi i capelli dietro l’orecchio, ci scappa il sesso, sempre presente nella serie, ma la mattina dopo tutto ha un sapore differente.
Hank è inevitabilmente costretto da questa vita, cerca l’amore, quasi lo brama ma nel momento dove dovrebbe applicarsi – vedi i continui tira e molla con Karen – cede, c’è qualcosa in lui che crolla. La colpa forse è da attribuirsi alla California, un posto che lui odia, meglio New York, in quell’attico in affitto, con le vetrate bagnate dalla pioggia, una canna, una bottiglia di whiskey e la macchina da scrivere – l’antipatia verso le nuove tecnologie sarà presente, utilizzerà anche portatili, ma sulla vecchia macchina da scrivere dei genitori si troverà sempre benissimo.
Questo è Hank e questo è il suo mondo, un uomo che sogna l’amore ma è solo innamorato di questo sogno. La pratica è un’altra cosa. Tolta la parentesi dell’amico-agente Charlie, che evolverà in situazioni paradossali sempre all’insegna della risata ma mai banali, la figlia Becca sarà una parte fondamentale della storia: egli infatti sarà la classica coscienza di Hank, momenti di tenerezza tra padre e figlia che portano sulla retta via Hank proprio quando mostra segni di cedimento, all’inizio sempre importanti, poi con il passare degli anni e la relativa crescita da parte di Becca, tutto cambierà: la sua famiglia è allo sbando, poche cose tiene tutti e tre uniti e inconsapevolmente sarà proprio Hank a tenere in piedi tutti i fili e tappare ogni buca per non far affondare la nave.
Il ‘finale’ della quarta stagione, inoltre, è quel finale ideale se la serie si fosse veramente bloccata lì. Dopo tutti gli scandali di sesso con minore, storyline che terrà banco tutte le quattro stagioni fino al processo finale, porterà alla riappropriazione dei diritti intellettuali di un’opera a lui rubata e, come se non bastasse, un film su quella vicenda. Attori e attrici che interpreteranno lui, set cinematografici che ricostruiscono la sua vita e la sua casa. E’ tutto finto, probabilmente come gli ultimi anni passati lì. Quello non è il suo mondo. Sale sulla sua Porsche, occhiali da sole, tramonto sulla costa Californiana e lui che va via da tutto e tutti. Ci sarà sempre per il suo amico, scriverà sempre per lui, amerà sempre Karen come Becca, ma il male di tutto forse è lui. You can’t always what you want dei Rolling Stones in sottofondo, la stessa canzone con cui si è aperta la prima puntata della prima stagione. Titoli di coda. Fine.
Le ultime tre stagioni.
Parliamone. Qui c’è da capire essenzialmente cosa sia successo perché se qualche hater affannava per criticare una serie, fino ad allora, inattaccabile – non perfetta, ma coerente con quello che voleva dire – le ultime tre stagioni sono state create proprio per smontare il “mito” di Californication. Personaggi esagerati e macchiette, situazioni fantozziane, molte volte si perde il senso del reale a beneficio di… cose. Esempio? La 6×03, ad una funerale di una rockstar, Hank accompagnato da una groupie, un ologramma del defunto, di proporzioni titaniche, apparso dal nulla e registrato prima della morte, regala un ultimo assolo ai presenti che si inginocchiano al Dio del Rock trapassato. Tutto bello, tutto divertente ma idiota, futile, sterile, non racconta nulla e non c’è flashback o simili che meriti.
Si chiama ‘saturazione del genere’ e distrugge ogni cosa ben fatta precedentemente. A pagarne le spese, oltre un Hank Moody ripetitivo all’infinito, è il personaggio di Charlie, il suo amico e agente che diventerà da personaggio divertente a vero e proprio zimbello della serie. Le sue diverse e parentesi non faranno che svilire il piccolo agente che, per quanto divertente, non meritava questo trattamento. Nel suo essere, è sempre stato un personaggio fondamentale oltre che spalla comica, ma ridurre le sue avventure in squallidi luoghi comuni, quali fingersi gay o essere costantemente maltrattato da ogni donna, no, ne svilisce ogni buona intenzione.
Alla settima stagione, realizzata per chiudere tutto, i titoli di coda arrivano troppo tardi. C’è stato il dubbio sulla quinta, ma già dalla sesta stagione, tutto era andato in frantumi. La settima cerca di recuperare i cocci arrivando ad un’evitabile happy ending, non ce non ce lo saremmo aspettati, ma usato come soluzione di comodo per chiudere e far quadrare un cerchio smussato, non ha giovato.
Ecco manifestarsi quel odio e amore, perché anche il più sincero dello spettatore, al netto di alcune soluzioni non ideali, le prime quattro stagioni di Californication erano una triste ballata romantica, introspettiva e funzionale quando voleva a dimostrazione che non era solo uno show che voleva mostrare tette a volontà senza logica (per quello, tette e poca logica, c’è Game of Thrones), ma alla fine, per paura di mettere quel ‘the end’ finale, si è arrivati proprio a questo.
Ad oggi, Californication rimane comunque un’ottima serie da scoprire e riscoprire. Come avvertimento è facilmente intuibile un “fermatevi alla quarta” ma, sempre in balia di una tempesta, non si abbandona mai la nave. Il capitano è fuori a pranzo, ma ha lasciato un segno indelebile.
Grazie Hank.
- Cosa vuole The Equalizer 3 da noi? - September 21, 2023
- Oppenheimer, responsabilità e futuro - August 21, 2023
- Barbie e Ken in fuga da Barbieland - July 19, 2023