Good Time, un’ode ai perdenti e ai reietti di New York

Good Time, un’ode ai perdenti e ai reietti di New York

November 13, 2017 0 By Simone Tarditi

Good Time, lungometraggio dei Safdie Brothers distribuito nelle sale italiane grazie alla Movies Inspired, inizia e si conclude dentro una struttura per malati psichiatrici. Si tratta di una comunità composta da disagiati mentali, non autosufficienti, che -sorretti nelle loro scelte da operatori sanitari- vivono all’interno di una gabbia di pensieri circolari, confortanti frasi ripetute in loop e formulari di sopravvivenza, test scritti per intelligenze primitive, giochi in comune per consolidare il gruppo, muri dipinti di chiaro per placare gli animi, muri di un bianco sporco, corridoi senza via di fuga, microscopiche stanze per macrocefali.

Nell’arco di una giornata, Connie Nikas (Robert Pattinson) deve trovare un rimedio economico a una rapina andata male, liberare il fratello ritardato Nick (Benny Safdie, che è anche uno dei due registi del film), sfruttare l’ospitalità e l’ingenuità dell’afroamericana Crystal (Taliah Webster), rintracciare della refurtiva nascosta dentro un luna park salvo poi doversi accontentare di una bottiglia di Sprite piena di droga, sopravvivere ad altre peripezie e ai molti pericoli che si nascondono nella periferia newyorkese.

good time robert pattinson

Una delle domande che, nei primi minuti del film, lo psichiatra pone a Nick riguarda la sua capacità d’interpretare una frase e cosa voglia dire farlo. Nick non sa rispondere, ma può provarci. È anche l’invito che Good Time rivolge implicitamente agli spettatori: non tanto un’interpretazione, quanto una contestualizzazione di alcune battute di dialogo del film.

Non abbiamo fatto niente di male”, dicono i fratelli dopo essere stati affiancati da una pattuglia di sbirri. Gli si può dare torto? La rapina è a fin di bene, per quanto possa sembrare assurdo scriverlo. Connie escogita il “colpo della vita” per far star meglio suo fratello, portarlo a vivere in una casa in mezzo al verde dei boschi, lontano dalla city e dallo schifo. Con maschere di lattice in testa, buffi come i criminali de Gli amici di Eddie Coyle (Peter Yates, 1973), i due depredano una banca di qualche migliaio di dollari. Pochi spiccioli per un istituto di credito, ma per loro è una somma che mai vedrebbero in tutta la vita.

Connie (l’unica mente) è un poco di buono. È uno sbandato, si tinge i capelli di biondo platino per far perdere le sue tracce (“Sono un tipo strano”), cambia costantemente abiti per lo stesso motivo, è un delinquente atipico che dice “grazie” e chiede “per favore”, ha un tatuaggio sulla schiena con su scritto POWER, ma in realtà di potere non ne ha alcuno.

Nel film –tra le varie nefandezze- cerca addirittura di sfilare 10k alla fidanzata (Jennifer Jason Leigh) col doppio dei suoi anni e morbosamente legata alla madre, ma tutto quello che fa sembra paradossalmente normale e moralmente non ingiusto. Commette crimini e abusa della gentilezza altrui, sì, ma in un universo sotterraneo fatto di mezzetacche e poveracci non può immaginare di potercela fare ad attuare il suo piano se non usando quel briciolo di astuzia di cui dispone. Quello di Good Time è lo stesso mondo dipinto dal regista Claudio Caligari in Italia. Reietti e perdenti col destino segnato.

good time robert pattinsonTolte due o tre inquadrature aeree, la New York mostrata del film è priva di quei riferimenti geografici con cui si tende a immaginarla, la vicenda si dipana sulle strade del Queens, dentro abitazioni tristissime, in vicoli squallidi. L’America, quella vera e povera, è fatta di gente anziana che si spacca ancora la schiena (“Domani devo lavorare quindi adesso prendo un sonnifero e vado a dormire”), di giovani che si cibano di bastoncini di pollo e cibo spazzatura, di drogati che sognano di guidare una Lamborghini e non si chiamano Guè Pequeno, di carcerati che marciranno da una cella all’altra per tutta la loro esistenza (“Sembravo vivo, invece sono morto”), di programmi televisivi che fanno il brainwashing (altro elemento assurdo inserito nel film: la serie Law & Order trasmessa sul televisore della prigione di Rikers Island). È anche però l’America della solidarietà tra chi è quasi al verde, ma spezzerebbe un pezzo di pane pur di non vedere un suo simile morire di fame.

Good Time non è semplicemente un crime movie privo di sbruffonaggine da ghetto, ma un canto d’amore verso i perdenti, i tossici, i disagiati, i miserabili, gl’ineducati, quell’umile classe che mai potrà avere una rivalsa sociale. Neanche sullo schermo del cinema.

Simone Tarditi