
L’uomo senza passato: summa cinematografica di Aki Kaurismaki
November 22, 2017“L’uomo senza passato” del regista Aki Kaurismaki è stato presentato nel 2002 al Festival di Cannes dove ha vinto il Grand Prix speciale della giuria e premio per la miglior interpretazione femminile (assegnato a Kati Outinen nel ruolo della protagonista) ma come non ricordare il celebre balletto su red carpet del nostro finlandese, passato alla storia del cinema? Il film è stato inoltre nominato agli Oscar come miglior film straniero, ma il regista ha rifiutato di partecipare alla premiazione per protestare la presenza del paese in guerra. (Lo stesso è accaduto successivamente per “Le luci della sera”). Pellicola intermedia nella trilogia dedicata alla Finlandia (dopo la trilogia dedicata agli operai e precedente a quella non ancora conclusa “dei porti”) vede l’attore Markku Peltola nel ruolo del protagonista affiancato dalla Outinen (coppia al terzo film insieme diretto da Kaurismaki, dopo “Nuvole in viaggio” e “Juha”). M è il protagonista “anti-eroe” per eccellenza: muore nel giro di pochi minuti a seguito dei colpi con mazza da baseball infertogli da tre balordi prima di derubarlo. Una violenza gratuita che lo ha accolto dopo essere sceso dal treno notturno e sorpreso nel sonno su una panchina. Brutalità che da avvio alla parabola di questo lazzaro di Helsinki dei giorni nostri: miracolosamente risvegliatosi da una morte apparente, scappa dall’ospedale ma si accorgerà ben presto di non sapere dove andare, vittima di una totale amnesia. Le fasi all’origine della perdita di identità vengono racchiuse nel volto di M ma rimangono precluse allo sguardo esterno: si fanno ora maschera da saldatore (messagli dagli assalitori) passando per la “testa tagliata” dall’inquadratura (nella scena del bagno pubblico) per infine “risorgere” avvolto dalle bende. Il ritorno alla vita è pagato a caro prezzo: facendo tabula rasa con ciò che era prima. Due ragazzini lo vedono addormentato sulla banchina del fiume mentre portano un secchio d’acqua: corrono nella casa/container ad avvisare i genitori. M, che non sa il proprio nome, viene accolto da questa famiglia che vive ai margini della società: se ne prendono cura e dividono il pasto frugale preparato con un fornello elettrico da campo.
“Il cinema è basato sulle immagini. Parlare è letteratura. Mi sono convinto che più si parla, in un film, meno si dice” (Aki Kaurismaki)
Una delle costanti che ritroviamo nella filmografia del cineasta è la presenza della musica: elemento fondamentale che spesso diventa protagonista assoluto, sostituendosi ai dialoghi o diventando ponte tra una scena e l’altra. Oltre all’alternarsi del rockabilly con le canzoni tradizionali finlandesi, abbiamo anche un titolo in giapponese, che accompagna il sushi e sakè alla cena in treno. Il Giappone ritorna, non solo nell’ultima pellicola del 2016 “L’altro volto della speranza” ma anche nei piccoli omaggi di Kaurismaki ad uno dei suoi registi-modello: Yasujiro Ozu. Oltre ai due ragazzini-soccorritori (che ricordano i fratellini giapponesi nel film “Ohayo” di Ozu) è soprattutto nell’utilizzo degli spazi e del colore rosso: punte che accendono la scenografia e che ritroviamo nella camicia che indossa l’uomo, come in un telefono, un divano o un cartello per strada. Ma anche in un’azione come quando Irma allinea alla parete le scarpe che si è tolta. Per quanto riguarda la fotografia abbiamo anche ne “L’uomo senza passato” la conferma del sodalizio di Kaurismaki con Timo Saalminen. La palette cromatica si accende nella prima parte della pellicola con toni caldi, brillanti e surreali. L’utilizzo dei complementari (rosso e verde) rende densa l’immagine, vibrante e vicina al Technicolor di Sirk Douglas.
Nella seconda parte, invece, l’intensità del colore degrada per raffreddarsi nei grigi e blu. I luoghi di passaggio di porti e stazioni sintetizzano la fusione culturale e sociale che sta alla base della poetica del regista. Inoltre l’immagine del cantiere rimanda ai protagonisti che animano i suoi lavori, tesi verso una ri-costruzione della propria individualità. Spesso si seguono indicazioni imprecise, fatte di strade senza nome in cui viene suggerita una meta “seguendo l’ombra del campanile”. Anche la discarica diventa uno dei luoghi popolati da un microcosmo di “invisibili”: emarginati che sopravvivono in uno stato di forte precarietà. Ciononostante sarà proprio questa comunità di ultimi ad accogliere M e a dividere insieme quel poco che hanno. Una realtà in cui ognuno ha bisogno dell’altro, dove l’idea del fare comune è resa possibile nella condivisione ed utilità che si mostrano l’un l’altro: c’è sia il “vicino ricco” che ha la lavatrice (il protagonista la userà per lavarsi la camicia per un rendez-vous) come la mamma che mette insieme qualcosa per chi si ferma a cena. In una delle tante scene in cui domina il silenzio, vediamo uno spaccato del loro vivere quotidiano: dall’uomo che suona la fisarmonica, ai due giocatori di carte attorno ad un tavolino, soffermandoci un momento in più su una giovane donna che passa con la caffettiera tra i panni appesi ad asciugare. Lo spettatore “sbircia” e scopre alcuni dispositivi ingegnosi “fai-da-te” come una tinozza improvvisata o un juke box aggiustato e riutilizzato. In questa sequenza, la macchina da presa è rivolta verso l’alto, nascondo la terra per mostrarci il cielo (una sorta di “l’Atalante” di Jean Vigo o “Sotto i ponti” di Helmut Kautner ma sulla terra ferma). Anche i tempi morti hanno una loro importanza: indugiano sugli spazi in cui un’azione si è svolta per svelare ciò che i personaggi consumano con grande misura. Paradossalmente il fisico massiccio di M sa dosare i propri gesti, accordandoli con l’essenzialità dei sentimenti espressi e l’utilizzo di dialoghi minimali. Le inquadrature incorniciano il lento svolgersi della narrazione, mentre campi lunghi si alternano alle figure intere e piani americani. Inoltre l’immagine è spesso concentrata nei dettagli delle mani: un riferimento al cinema bressoniano e qui racchiuso nel frugare del ladro nella valigia, come nelle dita di M gocciolanti sangue dopo l’aggressione o nei palmi di un soccorritore posate su chi ha bisogno d’aiuto. Mani che incontrano l’altro e rimangono “sospese” nell’aria per non disperdere l’attimo (già elevato a ricordo) del primo incontro con Irma (Kati Outinen: una volontaria dell’esercito della salvezza) mentre M è uno dei tanti in fila alla mensa. La macchina da presa osserva senza essere invasiva: sia quando i personaggi sono collocati al centro della scena (ma rimangono in secondo piano) come quando si accostano lateralmente a una finestra o si appoggiano al muro. Compostezza e rigore sono percepibili anche nel secondo intreccio della storia che si svolge in parallelo: ovvero la nascita di un un sentimento tra i due protagonisti non più giovani.
“Dobbiamo recuperare lo spirito neorealista: capace di coniugare il realismo con l’ironia, la commedia. Penso ai fil di Vittorio De Sica e in particolare al più grande scrittore di cinema mai esistito: Cesare Zavattini”.
Kaurismaki ha a cuore le vicende degli ultimi e del mondo operaio: nei suoi film non avvertiamo mai la pesantezza dei temi soprattutto grazie all’utilizzo dell’ironia, black humor e scene al limite del grottesco e surreale. Dal cane della guardia che di pericoloso ha solamente il nome “Hannibal”, all’amico che lo porta a bersi una birra, nella speranza che l’alcool lo aiuti a fargli tornare la memoria. Lo stesso regista, prima di intraprendere la carriera cinematografica, ha svolto i lavori più umili (magazziniere, caldaista, lavapiatti) cambiando mestiere per 46 volte e conoscendo così persone di ogni tipo: materiale antropologico utile per ampliare il repertorio della sua tragi-commedia umana. La ricerca di M della propria identità si accompagna con quella di un posto di lavoro: frammenti dispersi che ben si accordano con l’affermazione della dignità e il desiderio di re-integrarsi nella società. Consapevole di dover ripartire da zero, inanzitutto come individuo, il nostro protagonista non si perde in troppe elucubrazioni e piagnistei: è un uomo faber, che sa tenersi occupato anche con altre attività in mancanza di un posto fisso, dallo strappare un pezzo di terra della discarica da destinare a orto come improvvisarsi manager musicale. Sembra che qualcosa della “vecchia vita” riemerga così nella sua tecnica manuale (coltiva, aggiusta mobili, svolge faccende domestiche) come nel suo buon gusto (nel vestire o nell’arredare il container che la guardia gli ha affidato). Tra precarietà, improvvisazione e la luminosità degli esterni dopo un’acquazzone viene offerta all’uomo la possibilità di riscattarsi: è portato per il mestiere di saldatore e così può essere assunto da un’impresa. Non mancano scene “alla Ken Loach” per i paradossi burocratici: al centro di collocamento, M non può riempire i moduli senza fornire le proprie generalità e così non viene preso sul serio mentre la lunga fila di coloro che attendono un posto pare un continuum dell’incipit di “Ladri di biciclette”. I capovolgimenti delle situazioni invitano lo spettatore ad andare oltre le apparenze come nel caso del “rapinatore” che M incontrerà nella banca in cui è andato ad aprire un conto “in Svizzera” (come gli è stato suggerito in mancanza d’indentità!). Un triangolo (sarà coinvolta pure la cassiera) dell’assurdo in cui ogni personaggio si trova al vertice di un caso limite alla propria dose di sfortuna. L’importante è rimanere calmi, senza scomporsi (come nella scena nel caveau) o di contro dare via libera alle parole (come farà l’avvocato di M durante la difesa). Al bar, altro luogo topico, il protagonista scoprirà dal racconto del rapinatore che lo ha seguito, quali sono i motivi che lo hanno spinto al gesto disperato, mentre sulla parete dietro ai due una fotografia omaggia l’amico scomparso del regista: Matti Pellonpaa (attore in alcune sue precedenti opere).
Il volto di M invece, è nell’annuncio delle persone scomparse. Il passato riemerge quando meno se lo aspetta: la polizia gli dirà che la moglie l’ha riconosciuto e che è un saldatore. Non nasconde la verità ad Irma che gli suggerisce, in quanto “timorata di Dio”, di tornare a casa per la “sacralità del matrimonio”. M saprà, da una coniuge che non ricordava di avere, di un matrimonio non tutto rose e fiori: il “problema” che ha spinto la donna a mettersi in contatto con lui era infatti quello di sapere a quale indirizzo spedirgli i documenti del divorzio. Il ritorno a casa da al protagonista le certezze che cercava: il proprio nome e il posto dove tornare, eppure guarderà a tutto questo con occhi da estraneo, come se fosse la storia di un altro. L’entrata in scena del nuovo compagno della donna sancisce un duello puramente verbale tra uomini. Un John Ford grottesco fa da sfondo alla schiettezza che emerge nel dire ciò che si pensa: una soluzione irreale ma in grado di risolvere nel giro di poche battute gli imprevisti della vita. È nella parte finale che M “si rivede” assistendo al pestaggio di un malcapitato ad opera degli stessi tre tizi che gli erano capitati all’inizio. Quando si dice “l’unione fa la forza”: dai container escono tuti i suoi compagni “senzatetto” che silenziosamente vanno in loro aiuto, mettendo in risalto un senso di appartenenza che non ha bisogno di parole. La vera speranza nel futuro è nello sguardo delle donne di Kaurismaki: qui incarnate dalla moglie dell’amico Nieminen che sogna “una casa popolare” ed in Irma, il cui atteggiamento positivo è inondato dalla sua salda fede religiosa.
“Io sono molto giapponese nel mio lavoro in un certo senso. La base di tutta l’arte è la diminuzione.” (Aki Kaurismaki)
Il lavoro di sottrazione dell’immagine si unisce al minimalismo espressivo. Kaurismaki ama anche Jarmusch, Bunuel, Godard, Bergman e Kiarostami (oltre ai già citati Bresson e Ozu). I suoi “maestri” narrano le stesse cose differenziandosi nello stile: l’orrore della vita e della società. Una certa dose di pessimismo sta alla base dell’epopea laica di un uomo senza patria partendo dalla morte “apparente” per poi rinascere e intraprendere un percorso fatto di piccole speranze ed incontri che gli permetteranno di ri-organizzarsi in una nuova vita e affermare così la propria dignità di essere umano. Le certezze che ritroviamo nei titoli del regista finlandese dai luoghi ai volti degli attori, passando per i generi musicali, trilogie, senso dell’ironia e adattamenti della letteratura hanno a che vedere con un’idea di permanenza a cui affidare i sentimenti di protagonisti scelti tra i diseredati, mostrandoci quel calore e colore che riescono a trovare, nonostante tutto, nel degrado e privazione. Non più abbandonati a loro stessi, i personaggi di Kaurismaki attraversano insieme il crocevia e nonostante il passaggio di un treno merci ci precluda la loro immagine in lontananza, sappiamo che continuano ad andare avanti.
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