
TFF35: Barrage, storie di madri e di figlie
November 25, 2017 0 By Simone TarditiBarrage. Letteralmente “la diga”, “lo sbarramento”, struttura artificiale fisicamente presente nel film e metafora dei sentimenti incomunicabili, delle parole non dette, della divisione fra due entità separate (corpi, menti), dell’impossibilità di congiungere due persone che nella dimensione del presente sono lontane, o sono state allontanate in passato. Figlie, madri, nipoti, sorelle. Un legame di sangue. L’universo del film di Laura Schroeder è quasi unicamente femminile e le poche figuri maschili presenti fungono da mero contorno narrativo (un padre di cui non si sa l’identità, un anonimo personaggio conosciuto in un bar, poco più). Tutta la storia si realizza attorno a tre donne.
Dopo essere scomparsa per una decina d’anni, Catherine (Lolita Chammah) torna a Lussemburgo desiderosa di ricongiungersi con la figlia Alba (Themis Pauwels) che non ha visto crescere. Elisabeth (Isabelle Huppert), che in tutto quel tempo si è presa cura della nipote, è inizialmente contraria al ricongiungimento delle due e non sa se fidarsi di Catherine, il cui passato da drogata non può essere dimenticato tanto facilmente. La situazione cambia bruscamente quando un normale pomeriggio da trascorrere al parco si trasforma in un weekend di fuga dalla città e di (presunto) rapimento.
Presentato in anteprima mondiale alla Berlinale, Barrage è tra i film in concorso alla 35ma edizione del Torino Film Festival e rappresenterà il Lussemburgo per la corsa alla cinquina dei migliori film stranieri candidati agli Oscar nella primavera del 2018. Un lungometraggio doloroso, di un realismo raro, vero da far star male. L’incapacità di Catherine, nonostante la buona volontà, di essere finalmente una madre per Alba è quella di chi è diventato genitore anzitempo e per sbaglio. Una notte di alcol e droghe, una delle tante, è bastata per rimanere incinta di una bambina indesiderata e per fortuna allevata da una nonna (Elisabeth) che se n’è presa cura – in tutti i sensi – come se fosse sua figlia.
Non si nasce genitore, lo si diventa, e non ci sono modi d’imparare ad esserlo. Quanto può durare la redenzione di Catherine? Come possono Alba ed Elisabeth fidarsi di lei? Come possono tutte andare avanti con le loro vite nella maniera migliore possibile? I dubbi, i segreti, i timori sono cuciti assieme in una tela che lega maternità e filiazione. In questo trittico, Catherine è sicuramente la più tormentata, in una cuspide emozionale tra il non voler deludere sua madre e il desiderio di riavvicinarsi alla figlia che mai ha conosciuto, ma che nel frattempo è diventata grande senza di lei. Barrage è uno squarcio nei fallimenti delle esistenze, negli errori a cui si può rimediare sempre solo parzialmente e che rimarranno sempre in superficie, ben visibili come un monito per il futuro.
Tutt’altro che di secondo piano la scelta di ambientare la seconda metà del film nella casa di campagna delle protagoniste, un luogo immerso nella natura, vicino a un lago e alla diga che dà il titolo al film. Lì abitano, figuratamente, i fantasmi di un passato impossibile da cancellare. Vecchie foto, vecchie videocassette, vecchi giocattoli, vecchie racchette da tennis, vecchi premi, vecchi souvenir, vecchi abiti. Oggetti pregni di ricordi, quasi dotati di una loro vita essi stessi, che non invecchiano, non cambiano a differenza di chi li possiede. L’abitazione assume i tratti di un museo di chi si è stati, di cosa si è lasciato indietro, di cosa non si è portati con sé. E per il fatto di essere un luogo di vacanza, dove andare per sfuggire alla città e alla quotidianità, diventa anche un luogo immobilmente ostile perché illude chi vi dimora per qualche giorno di tornare a essere chi si era, ma è ormai solo una dimensione della memoria.
Infine, una nota su quello che è un elemento di Barrage per niente marginale e che rende il film ancor più realistico: Isabelle Huppert e Lolita Chammah sono madre e figlia per davvero, nella vita reale. Le due non sono identiche, ma a tratti la somiglianza è tale da far sospendere per qualche istante l’illusione che quella sia solo una storia di finzione e che loro siano soltanto dei personaggi fuoriusciti da una sceneggiatura, soprattutto se lo si scopre dopo aver visto il film.
Into this world we're thrown".
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