
TFF35: A Taxi Driver, aridatece Alberto Sordi
November 30, 2017Seoul, primavera 1980. Un tassista rimasto vedovo (Kang-ho Song, Snowpiercer e The Age of Shadows) conduce un’esistenza modesta assieme a sua figlia undicenne. Il costo della vita è sempre più alto, i soldi non sono mai abbastanza. Per guadagnare molto e in fretta, decide allora di trasportare a bordo del suo taxi quei passeggeri che vogliono arrivare fino a Gwangju, diventata improvvisamente una zona pericolosa per via di alcuni scontri tra popolazione locale ed esercito. L’incontro con un reporter tedesco (Thomas Kretschmann) cambierà per sempre la sua vita e quella di moltissimi altri cittadini.
A metà strada tra la solitudine del Robert De Niro di Taxi Driver e la mancanza di serietà di Alberto Sordi ne Il Tassinaro, il protagonista del film è l’emblema di chi raramente ha preso una posizione nella sua vita, ma finalmente e per una giusta causa decide di compiere una scelta morale che si configurerà come fondamentale per l’andamento della Storia. Il giornalista, imborghesito e fighetto, ma col desiderio di fare qualcosa di utile e non solo per i soldi, vuole a tutti i costi raggiungere Gwangju per documentare con la sua cinepresa la repressione che la gente del posto sta subendo. Entrambi i protagonisti avranno un’epifania, porteranno faticosamente a termine la loro missione grazie al sacrificio di molti e via con l’happy ending.
A Taxi Driver è molto ingenuotto, fatto senza molta cura, ma tuttavia non malaccio. Il vero mistero riguarda tanto il fatto di essere il candidato coreano per gli Oscar 2018 (il film, bisogna ammetterlo, è totalmente Academy Friendly, ma artisticamente parlando è difficile pensare possa essere il miglior prodotto cinematografico uscito dalla Corea del Sud nell’arco dell’ultimo anno) quanto un titolo totalmente “fuori luogo” per rappresentare l’Asia assieme ad alcuni J-horror, Tokyo Vampire Hotel di Sion Sono e i sempre ben accetti drammoni cinesi in una cornice come quella del Torino Film Festival.
Un po’ la strana coppia (un coreano e un tedesco, le difficoltà comunicative e le traduzioni approssimative), un po’ lo spot dell’Amaro Montenegro (“Quelle preziose pellicole andavano portate in salvo …”), A Taxi Driver ha se non altro il merito di restituire alla memoria una pagina della Storia dimenticata e non sufficientemente ricordata in Occidente ed è proprio quando smette di essere una commedia fatta d’incomprensioni e inizia a mostrare quanto sangue è stato sparso durante le proteste universitarie, i moti popolari, che il film funziona meglio. Il problema però è proprio questo: la mancanza di un’identità precisa.
Ciò che di più interessante A Taxi Driver marginalmente affronta è il discorso sulla diffusione d’immagini e filmati in un’epoca pre-digitale. Le difficoltà e le vicissitudini affrontate dal duo per far sì che tutto il mondo veda sui televisori cosa stia succedendo a Gwangju sembrano imprese preistoriche: le bobine devono essere imbarcate su un’area, sviluppate in madrepatria Germania e da lì trasmesse. Altro che Internet, trasmissioni satellitari, upload e download, streaming. Una corsa contro il tempo e una sfida per sopravvivere. In mani diverse e con dietro una produzione meno interessata a compiacere il grande pubblico, avrebbe anche potuto uscirne un film migliore. Così non è stato.
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