
TFF35: Final Portrait, non il solito ritratto d’artista
December 2, 2017Parigi, 1964. Alberto Giacometti (Geoffrey Rush) chiede al gallerista James Lord (Armie Hammer) di poter eseguire un suo ritratto. La genesi di questo dipinto farà nascere una bizzarra amicizia tra i due. Breve sintesi di quel che accade in Final Portrait, che dopo la Berlinale è stato presentato anche alla 35ma edizione del Torino Film Festival.
Sceneggiato e diretto da Stanley Tucci, Final Portrait non vuole essere un classico biopic sull’artista maledetto, la fama, i suoi eccessi, le spirali autodistruttive dei geni sregolati e quant’altro, ma piuttosto un semplice sguardo su due individui, Lord e Giacometti, distanti anni luce l’uno dall’altro, uniti in nome dell’Arte.
All’interno dell’atelier, il pittore-scultore passa gran parte delle sue giornate, è circondato da opere incomplete (alcune sono così per volontà propria, altre per mancanza d’ispirazione), si serve di giovani modelle prostitute, fuma una sigaretta dopo l’altra, esalta Cézanne e sminuisce la carriera di Picasso. Tra le varie attività che lo vedono impegnato c’è anche la quotidiana riflessione sul suicidio e la fascinazione per la morte. Quale potrebbe essere il modo migliore per suicidarsi? Ce n’è uno più spettacolare degli altri? Forse darsi fuoco come un bonzo tibetano? In quello che è un cupio dissolvi teorico e reale, Giacometti -come la maggior parte degli artisti prima e dopo di lui- non ha nessuna considerazione del denaro, lo sperpera, lo spende tutto in regali, laute mance ai ristoratori, pagamenti arretrati e futuri ai papponi.
Per contro, Lord è l’esatto opposto. Serio, pulito, puntuale, metodico, con una moglie che lo aspetta dall’altro lato dell’Oceano. È attratto dalla sregolatezza del nuovo amico e non perde occasione per andare a trovarlo, documentare con la propria macchina fotografica il progresso del dipinto, appuntarsi sull’agenda quel che succede e viene detto di volta in volta. Gli appuntamenti “pittorici” che si danno, dopo ben poco, non sono altro che un’occasione per trascorrere del tempo assieme, conoscersi e forse sentirsi meno soli.
Con il suo Final Portrait, Stanley Tucci costruisce un film monumentale e allo stesso tempo senza grandi pretese. Gran parte del film sembra essere virato in tonalità di grigio come le statue oblunghe che popolano il laboratorio di Giacometti e che lui continua a modellare e modificare, opere d’arte incompiute per decisione dell’artista quasi volesse cercare di perseguire un ideale di perfezione nel lasciare mancanti delle parti. È quel che succede anche al ritratto di Lord. E fintanto che Final Portrait rimane confinato dentro le mura dello studio lo spettatore è beatamente rinchiuso dentro quel minuscolo mondo dove le idee prendono forma, quando la cinepresa esce di lì e si limita a offrire abbozzate immagini-cartolina di una Parigi dell’epoca si perde un po’ di quella magia fatta di pochi esseri umani, scarabocchi, pennelli, …
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