Happy End di Michael Haneke, l’epilogo dei mostri

Happy End di Michael Haneke, l’epilogo dei mostri

December 20, 2017 0 By Angelo Armandi

happy end posterSe i Funny Games erano tutto fuorché divertenti, o Amour problematizzava in maniera estrema la dimensione del sentimento, o Il nastro bianco non lasciava presagire la reale natura degli eventi narrati, di certo Happy End, a confermare la cifra sarcastica di Michael Haneke, riassume un esito tutt’altro che felice.

L’universo di Happy End sembra derivare da un’appendice di Amour, di cui rappresenta un’estremizzazione concettuale, un’estensione al cubo della provocazione divenuta immagine, attraente e respingente al tempo stesso, consumata in irresistibile masochismo. L’allegoria di Funny Games, proprio perché palpabilmente violenta pur nel gioco tagliente di una ellissi di derivazione kubrickiana, era di più semplice comprensione e consentiva allo spettatore di identificarsi come estraneo alle vicende narrate, prendendone le distanze e potendo operare, pertanto, una forma di giudizio calcolato.

Nelle opere successive, e con Happy End all’apice, l’allegoria della bestialità umana diviene più sottile, ben mascherata sotto le spoglie di una borghesia decadente, in cui il gioco dell’identificazione conduce lo spettatore alla trappola, all’ammissione di conservare in sé il seme della bestialità, di essere sporco quanto le vicende narrate, di essere in definitiva estranei a qualsiasi forma di innocenza. La storia di un vedovo, George (Jean-Louis Trintignant che sembra in cross over dal mondo di Amour), depresso e aspirante suicida, inquadrato con ossessività nel suo reticolo di rughe ed espressioni di disprezzo, una maschera di ributtante senescenza; Anne, la figlia imprenditrice (Isabelle Huppert) e il fratello chirurgo Thomas (Mathieu Kassovitz), dal volto ombroso e geometrico, spigoloso, improntato su espressioni di terribile pacatezza, a celare miriadi di segreti ribollenti; sua figlia Eve (Fantine Harduin), a lungo affidata alla madre dopo la separazione, con grosse turbe psicologiche e uno dei motori poetici dell’opera: la ragazza è abituata a interfacciarsi con la realtà tramite il cellulare, che si pone come filtro per l’interpretazione della stessa e per il nostro agire su di essa, anche in presenza della morte, banalizzata e spettacolarizzata al tempo stesso.

L’intera opera sembra più improntata al documentario che al racconto di finzione, portando al minimalismo l’uso della camera, fino ad adottare riprese di cellulari o monitor di computer o telecamere di sorveglianza, ed estremizzare il linguaggio di Haneke, sbrindellando le vicende dei personaggi in tante micro sequenze frastagliate, scollegate, come scene quotidiane talvolta anonime e sostanzialmente indipendenti, come se tra gli stessi personaggi, e all’interno delle loro vite, ci fossero dei filtri che impedissero un collegamento armonioso, un relazionarsi costruttivo o una introspezione consapevole, lasciando che l’intreccio galleggi in un sottaciuto caos in cui lo spettatore ha l’arduo compito di recuperare il bandolo della matassa.

happy end haneke

Il film non piace, non vuole piacere, non è nelle sue aspirazioni: i personaggi sono caricature di se stessi, grotteschi nelle maschere stanche che indossano, infarcite di banalità e untuosa cattiveria (Toby Jones, in un ruolo minore, riesce sempre ad essere il più untuoso e meschino, da Il racconto dei racconti di Garrone alla serie tv Sherlock). Questo approccio distanzia lo spettatore dall’opera, che la osserva con circospezione, con dubbio, talvolta ride, talvolta osserva disgustato i fotogrammi, talvolta si annoia, talvolta pensa che il racconto sia abbastanza prevedibile: superata la provocazione carnale di Funny Games e quella sentimentale di Amour, resta la miseria di un mondo orribile, e la volontà di ritrarne gli aspetti più torbidi nella maniera peggiore possibile, cioè con la banale ordinarietà del quotidiano, che sottende una sostanziale legittimazione di ciò che è turpe, ed è maggiormente violento nella misura in cui non esiste alcuna forma di violenza conclamata, se non la normalizzazione dei mostri, e la loro perfetta integrazione nella società.

L’uomo di Haneke, raccontato in Happy End, accoglie coscientemente la propria natura, non ha evoluzione e si mantiene in un eterno presente, al pari dell’uomo kubrickiano (anche l’uomo di Haneke sa che un osso può diventare clava, ma non riesce a superare il dissidio). In questa opera, che potrebbe essere un testamento del regista o la conclusione di un discorso poetico già saturo (col rischio, già sfiorato qui, di un reiterarsi di topoi già narrati che nulla aggiungono alla matrice di base), allo spettatore non è richiesta la riflessione sulla moralità di un certo agire, ma la volontà di sorbire, ed ammettere, la violenza dei droogs new age in una salsa borghese calibrata, un po’ spenta, ma indubbiamente implacabile.

Angelo Armandi