Mute, la dedica di un figlio al padre

Mute, la dedica di un figlio al padre

February 27, 2018 0 By Gabriele Barducci

Mute Netflix poster vero cinemaLe vicende che intercorrono tra Netflix e il pubblico abbonato (e non) è sempre fonte d’ispirazione, questo perché ormai c’è una sorta di leva militare contro il colosso dello streaming: Netflix è il male, senza aver dei motivi ben precisi per odiarlo.
Netflix chiaramente non è il male e ogni sua opera originale proposta (motivo per cui NO, The Cloverfield Paradox NON è un film originale Netflix, come non lo è Annientamento di prossima uscita, questi sono film SOLO distribuiti sulla piattaforma) necessita di essere elogiata e criticata per ciò che effettivamente è.

Mute dunque si inserisce in quella definizione finale di film molto mediocre che mostra unghie e cuore troppo tardi per cambiare il giudizio finale. Bisogna quindi considerare alcune cose, necessarie per comprendere in parte la politica Netflix dietro le opere cinematografiche. Se con le serie tv il rischio di prodotti mediocri è apparentemente basso (ma non nullo), con i prodotti cinematografici la proporzione si inverte, con tanti prodotti mediocri e pochi degni di sufficienza.
Anche in sede di questo Mute salta all’occhio come difficilmente riconosciamo lo stile di Duncan Jones, a cui vogliamo un mondo di bene. Ok, WarCraft è stato un mezzo fiasco, ma a noi era piaciuto globalmente, eppure Mute sembra totalmente insapore, perché? La buttiamo lì, come semplice ipotesi: lo sbandieramento di carta bianca data a tutti i registi o autori da parte di Netflix, si sta rivelando un’arma a doppio taglio, questo perché anche il più grande regista vivente, ha sempre bisogno di alcuni limiti, di una produzione che abbia una piccola percentuale (piccolissima) di “controllo”.

Questo è ciò che manca dunque a Mute, un controllo, una limatura finale, un rapportarsi con lo spettatore per essere più semplice possibile. Questo non avviene, perché Mute, nel suo lunghissimo minutaggio (126 minuti) non dice assolutamente nulla, o almeno, quel poco che dice – questo barista Amish muto che va alla ricerca della fidanzata scomparsa – non è abbastanza per riempire tutti quei minuti. Così facendo, inesorabilmente, ci troviamo davanti un film scritto malissimo, con ritmo altalenante, con personaggi interessanti, ma mai concreti nel loro presentarsi allo spettatore.
Poi capita qualcosa nel finale, un terzo atto che ribalta tutto il film, la concezione di buono e cattivo che si inverte per lasciare il dubbio allo spettatore e ci si accorge come di quanto sia stato inutile quanto visto prima.
Ecco, lì Duncan Jones sapeva cosa fare e cosa dire, un film ambientato in una Berlino del futuro dove il background sci-fi è praticamente una cornice inutile, per abbracciare di più il noir, il film di genere, con punte di violenza interessanti.
Anche nel futuro, l’urbe notturna regala sempre quello spettacolo di seconda vita, quella della criminalità che muove gran parte dell’economia.

Poi arrivano i titoli di coda e Duncan Jones dedica il film al padre David Bowie e alla sua tata che si è preso cura del piccolo Duncan durante il divorzio dei genitori.
Mute è brutto? Sì, eppure con una dichiarazione d’intenti del genere, non ci viene da essere così cattivi, perché già da quando uscì WarCraft, Jones disse di aver avuto la più grande recensione positiva proprio dal padre. In quest’ottica non riusciamo a provare un minimo di tenerezza per una persona artisticamente non al meglio che sta cercando di esorcizzare in qualche modo una perdita così dolorosa, omaggiando quelle persone che gli hanno donato la vita e la voce.

Mute Netflix vero cinema

Gabriele Barducci