
La controeducazione sessuale di Sion Sono – Vol. I
March 16, 2018[L’articolo vuole essere l’inizio di un viaggio a ritroso nella carriera del controverso regista giapponese Sion Sono. Nello specifico, un addentrarsi all’interno del tema della sessualità per come viene trattato sullo schermo. Della numericamente ricca filmografia (mai quanto quella del collega compatriota Takashi Miike, sia chiaro) son stati presi “Antiporno” e “The Virgin Psychics”, due tra i film più recenti. Il primo è diventato un cult immediato, il secondo ha avuto tutt’altra accoglienza. Eppure entrambi conservano dei simili e diversi germi]
“Sono una vergine. Vergine, ma puttana”. Tra le ultimissime produzioni di Sion Sono, Antiporno è il titolo più ostico, criptico, simbolico, metacinematografico, osceno (eh beh), un autentico grumo purulento di nevrosi e multiformi identità. Kyoko (l’attrice Ami Tomite) è un’insofferente e viziata celebrità che abbaia ordini a chiunque si affacci sul palcoscenico della sua vita. All’apparenza forte, dietro quel muro di sicurezza si nasconde una personalità fragile, sperduta, incapace di sapere cosa volere. Tra scambi di ruolo e atteggiamenti dittatoriali, la via verso la liberazione da se stessi diventa lo scopo vero per cui continuare a vivere.
Un film schizofrenico Antiporno, leggibile su più piani, disorientante, ma allo stesso tempo lontano dall’essere frutto del caos. C’è una vicinanza, che è quasi aderenza, con Tag: sostanzialmente due film che altro non sono altro che due illustrazioni di un medesimo smarrimento. Probabilmente più amato all’estero che dal pubblico di massa nella sua terra natia, Sion Sono infarcisce questo suo breve film (75 minuti totali) di quell’armamentario tematico che è solito usare: il kitsch e il cattivo gusto (portati a un livello di sanguinolenta apoteosi col recente Tokyo Vampire Hotel prodotto incredibilmente da Amazon), i vizi provocati dalla fama (Love & Peace), la ricerca di un’identità sessuale raggiungibile attraverso dolore, fatica, sensi di colpa (Tag, Love Exposure), il concetto del “culto” (qui verso la notorietà, religioso in Love Exposure, di autodistruzione in Suicide Club), et cetera.
È la negazione del sesso, almeno per come rappresentato nella cinematografica erotica e pornografica, espressa dal titolo Antiporno a far sì che il regista giapponese possa servirsi di un progetto come questo per chiarificare, ancora, i motivi della sua indagine nella psiche umana (femminile, soprattutto). Il suffisso anti- lo si può usare con l’accezione latina di “qualcosa che temporalmente viene prima” o secondo la derivazione greca di “contro”: prima del porno, contro il porno.
Sion Sono realizza un film che contemporaneamente mostra la vita di una ragazza che deve razionalizzare il concetto di “sesso” perché il momento della perdita della verginità rappresenta uno spartiacque esistenziale come l’arrivo del primo ciclo (ancora, Tag), ma anche un guazzabuglio di elementi che, di fatto, annientano con prepotenza l’idea che l’attività sessuale sia qualcosa di “elevato”, ma piuttosto un misto di sporcizia, egoismo, vergogna, dipendenza.
Cazzi di gomma, guinzagli, mozziconi di sigaretta, lucertole dentro bottiglie di whiskey, camere piene di luci gialle, corvi impagliati in gabbie dorate, cessi nelle stanze in cui si dorme, specchi rotti, giacche variopinte come quella di Jimi Hendrix a Fehmarn nel ’70. Una controeducazione sessuale quella del Sion Sono di Antiporno, più interessato al lato oscuro del rapporto col proprio corpo (e i corpi altrui) che a utilizzare il suo film come veicolo utile solo per una masturbazione cinematograficamente letterale. Quello è, invece e con toni caricaturali, il fine di The Virgin Psychics, i cui personaggi son così esagerati dal sembrare fuoriuscire direttamente da un manga. Eppure tra i due prodotti s’instaura un legame di completezza: se Antiporno è totalmente orientato verso l’universo femminile, The Virgin Psychics mette a nudo la fissazione maschile per le donne. Fissazione, per non dire ossessione, che trova reazione visibile in erezioni costanti, seghe, kleenex, bambole gonfiabili (vd. Air Doll di Hirokazu Koreeda), sogni bagnati di dodicenni che inconsciamente non desiderano altro che tornare nell’utero materno.
Elemento chiave, tanto in Antiporno e tanto in The Virgin Psychics, è la relazione dei protagonisti con i genitori. Perché la prima idea di sesso nasce lì, dalla fecondazione e dalla gravidanza che porta alla vita quell’individuo che un giorno finirà col porsi delle inevitabili domande su come si venga al mondo e, successivamente in età adulta, sul perché si venga al mondo.
Sion Sono sembra citare, o forse è un elemento comune in tutta la cultura giapponese, un romanzo di Yukio Mishima (Il sapore della gloria) quando in Antiporno narra dello sbirciare delle figlie nella camera da letto dei genitori, intenti a fare sesso. È un imbarazzante momento del film dove si parla di fighe e cazzi con una tale e tagliente naturalezza da mettere a disagio. Tronchi di bambù dentro a foreste nere. I dialoghi puzzano d’incesto (“Fammi perdere la verginità” è la richiesta di una figlia al genitore). Una siffatta chiacchierata a tavola c’è anche in The Virgin Psychics, ma tutto è inserito all’interno di un contesto dove regna l’ironia e la spiritosaggine (a partire da come il padre e la madre masticano il cibo quasi stessero tenendo in bocca ben altro).
Se Antiporno è il vomitare immagini di sesso, The Virgin Psychics è tanto lo sminuire l’eros quanto l’esaltare il potere dell’immaginazione nel girare film mentali che inducano all’eccitamento. E oltre all’umiliazione, al farsi leccare, al rigurgitare, al frustrare, all’insultare, in Antiporno è la trattazione dell’anti-solidarietà femminile a spingere il film verso un piano ancor più complesso quando alcune donne danno delle puttane e delle cagne ad altre donne senza particolari motivazioni se non la paura e la naturale competizione. Riguardo a una sua “collega”, la protagonista Kyoko dice “Non merita neanche di essere un’attrice e nemmeno una donna. Neanche un mostro. Vale meno di un ratto schifoso”. Dialoghi come questo (ce n’è più d’uno) spiazzano lo spettatore ben più della violenza soft mostrata attraverso i fotogrammi. Se il sesso è immagine, il ferire è verbale. Poco importa il dissanguamento come metafora del sacrificio verso quelle figure da cui si dipende.
Il set di Antiporno, nonché del film dentro il film come trovata metacinematografica, è un luogo claustrofobico, tutto fatto d’interni (l’unico esterno è quello in una foresta dove avviene uno stupro durante la proiezione di un incubo). E se la vita è una prigione, almeno che sia piena di colori.
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