
Come fare il giornalista, tra The Post e L’asso nella manica
March 28, 2018Tra il buon giornalismo di The Post e il cattivo giornalismo de L’asso nella manica c’è l’immensa figura di Charles Kane, che manipolava l’opinione pubblica sulla guerra ispano-americana. Quel che distingue il buon giornalismo dal cattivo giornalismo è dunque il modo in cui si decide di trattare un certo fatto di cronaca, ovvero una verità legata al fatto nudo e crudo.
Non c’è dubbio che Chuck Tatum, giornalista senza scrupoli de L’asso nella manica, avrebbe trovato con i Pentagon Papers – al centro della vicenda raccontata da Spielberg in The Post – pane per i suoi denti: cacciato dai maggiori quotidiani nazionali perché forte bevitore e donnaiolo, è alla ricerca dello scoop per tornare a vivere dalla periferia dell’impero a New York. Lo scoop ha il volto di Leo Minosa, proprietario assieme alla moglie e agli anziani genitori di una squallida stazione di gasolio in mezzo al nulla. Appassionato di antichi reperti indiani, si è addentrato in una cava a pochi passi da casa, ma una frana lo ha intrappolato nel budello della montagna, peraltro considerata sacra dai pellirosse. Chuck fiuta lo scoop, e fa di tutto perché Leo non venga immediatamente estratto vivo: vuole l’esclusiva sulla notizia, e per far questo convince anche lo sceriffo e l’ingegnere chiamato per l’estrazione a temporeggiare.
Se Chuck fosse vissuto appena quindici anni più tardi, non avrebbe esitato nel pubblicare i Pentagon Papers. In The Post il motivo del contendere è appunto la pubblicazione di documenti top secret sulla guerra in Vietnam, che il governo americano insisteva a presentare al pubblico come vittoriosa. Il New York Times fu il primo a pubblicare parte del materiale, ma fu interdetto dalla Corte Suprema. Recuperati i documenti, il Post, allora relegato a giornale di provincia – come l’Alburquerque Sun Bulletin del film di Billy Wilder – non sa decidersi se pubblicarli o meno. Chuck lo avrebbe fatto, più per la gloria e la fama che per gli ideali di libertà di stampa e di servizio al popolo americano che ammantano il film di Spielberg. Invece Katharine Graham, legittima proprietaria del Post dopo la morte del padre e il suicidio del marito, tergiversa. È peraltro molto amica di Robert McNamara, che uscirebbe malissimo dalla pubblicazione dei documenti.
L’asso nella manica e The Post si basano su due modi diversi di fare giornalismo, ma si appoggiano entrambi sulla solidarietà del pubblico. Ma lo fanno in modo diverso: Tatum vi fa affidamento in modo perverso, sapendo quali corde toccare per vendere migliaia di copie e riottenere, per proprio tornaconto personale, un posto a New York. Calcola costi e benefici, si crea un entourage di persone interessate disposte ad assecondarlo – lo sceriffo, l’ingegnere – affinché la storia duri il più possibile, in modo da vendere il maggior numero di copie possibile. Ma Leo non deve morire: dal film si ricavano tante lezioni di giornalismo (scandalistico, e quindi vero), per cui ad esempio al lettore sta più a cuore la vita di un singolo che quella di un gruppo di persone. I piani non vanno come devono andare quando si capisce che Leo non può farcela, e Chuck viene preso dai rimorsi di coscienza. Il giornalismo adamantino viene incarnato nel film dal direttore del giornale di Albuquerque, che, una volta scoperti i modi immorali con cui Tatum sta mandando avanti la faccenda, si presenta sul posto e intima al reporter di piantarla lì. Non avrebbe sfigurato in The Post, anche se gli manca l’intraprendenza di Ben Bradlee, che in The Post cerca continuamente di convincere miss Graham a pubblicare i documenti.
L’asso nella manica si svolge tutto all’aperto, in un deserto senza orizzonte invaso da centinaia di migliaia di curiosi, accorsi per seguire passo passo la vicenda di Leo Minosa. Il film è conosciuto anche con il nome di The Big Carnival, facendo riferimento al grande circo (effettivo e mediatico) che si organizza attorno all’evento. Di lì a pochi anni, l’Italia intera avrebbe trattenuto il fiato con la vicenda di Alfredino, caduto in un pozzo vicino via del Vermicino, i cui tentativi di soccorso vennero ininterrottamente trasmessi dalla RAI fino al tragico esito finale. In quell’occasione fu coniata l’espressione di “TV del dolore”, che ha tutt’oggi successo quando si presentano in TV i plastici di Cogne o si ripercorrono le tappe della morte di Sarah Scazzi. Quelli che non videro Alfredino in TV erano lì, 10.000 persone che rallentarono i soccorsi e intasarono il luogo dell’incidente. Giusto per sottolineare che il pubblico, spesso, ha la sua buona parte di responsabilità.
Agli spazi aperti de L’asso nella manica si contrappongono gli spazi chiusi di The Post, ambientato sempre nella casa di Meryl Streep o negli uffici o nei nascondigli di Daniel Ellsberg, colui che sottrasse i documenti e li consegnò alla stampa. In questo caso, il pubblico non va coccolato, né ammaliato, ma sensibilizzato: bisogna, in nome della libertà di stampa, renderlo consapevole di segreti pericolosi di cui sono a conoscenza ben pochi iniziati. Ne L’asso nella manica la verità è esoterica, nel senso che la detiene solo Chuck Tatum e pochissimi altri; in The Post diventa essoterica, nel senso che va divulgata in nome di un ideale più alto. Col primo ci si diverte, col secondo ci si sente migliori.
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