
Hounds of Love: l’eleganza del rapimento
April 10, 2018Torbida e lugubre: è questa l’immagine dell’Australia che un intero filone di pellicole marsupiali ha restituito della propria terra nelle sale e negli schermi occidentali (vd. Sweet Country). Sembra infatti impossibile non associare tali caratteri a produzioni che spesso riproducono il medesimo schema variato nei dettagli e talvolta nella forma, con un’ambientazione resa idealmente ancor più desolante del reale e generalmente collocata tra la fine degli anni ’80 e i primi dei ’90, rimandando probabilmente a una serie di fenomeni di violenza realmente accaduti. Ecco allora arrivare, con ancora nella memoria la crudezza ormai di culto dei vari The Loved Ones e Wolf Creek, l’ennesima variazione sul tema tipicamente australiano del rapimento e della tortura: Hounds of Love, opera prima di Ben Young passata con successo per Venezia (premio Fedora per la protagonista Ashleigh Cummings) e ora anche per la sala cinematografica.
Non a caso sono proprio gli anni ’80 a consentire al cineasta esordiente di prendere a piene mani dalla scatola magica dell’estetica eighties, che per mezzo dell’aggancio alla triste realtà dei rapimenti che terrorizzava quelle cittadine gli permette di appoggiare uno stile riconoscibile – talvolta fin troppo compiaciuto – sopra uno schema narrativo arcinoto. Nella fattispecie sarà Vicky, adolescente turbolenta con genitori separati, a fare i conti con l’aguzzino di turno, che per l’occasione viene “sdoppiato” in una coppia malsana a sottolinearne da un lato la complessità psicologica e dall’altro a porre le premesse per svolte narrative piuttosto prevedibili ma godibili e di indubbio valore estetico.
Sta proprio nelle scelte stilistiche l’elemento caratterizzante di Hounds of Love rispetto al genere già evocato, ricco com’è di ralenti contemplativi ed escamotages che lasciano la violenza fuori campo (spesso le porte si chiudono a nascondere l’atto della tortura) per mostrarne con più gusto gli effetti fisici e psicologici sulla vittima. Allo stesso modo funziona alla perfezione il più classico meccanismo della semina di elementi nel primo atto poi rivelatisi essenziali per la risoluzione finale, peraltro con l’aggiunta di una tematizzazione semplicistica che farà storcere il naso a taluni, ma decisamente di tutto buon senso e necessaria ai fini di un finale catartico. È infatti la tentazione di Vicky per la droga offerta dalla coppia di carcerieri seriali a innescare la catena di sangue al centro della pellicola, mentre la già accennata stratificazione caratteriale dei torturatori innamorati creerà degli equilibri precari nel triangolo dei protagonisti, equilibri delicati a tal punto da poter essere sfruttati dalla giovane imprigionata.
A tal proposito c’è forse una sequenza in cui più delle altre Young riesce con l’immagine e un rapidissimo scambio di battute a restituire plasticamente l’essenza del torturatore John, pedinato dalla macchina da presa durante un acquisto in un market e profondamente a disagio nei rapporti interpersonali con i compaesani: padrone e aguzzino in casa, timido asociale fuori. Parallelamente, la compagna di vita e di malefatte Evelyn sarà collocata a metà strada tra la vittima e il carnefice, ora infatti succube del compagno e ora furia cieca e violenta con Vicky. Nel complesso il lavoro di Ben Young risulta quindi elegantissimo, pudico rispetto alle premesse e al genere di appartenenza di cui proprio in questo senso rappresenta una piacevole variante, in particolar modo se osservata con l’occhio indulgente di chi ha a che fare con un’opera prima, mai come questo caso pulita e curata in contrappunto a un contenuto sporco e drammatico. A ben vedere, dunque, la scelta formale legata alla contemplazione e alla dilatazione del cineasta australiano si rileva non solo vincente, ma anche necessaria ai fini di un minimo riconoscimento che renda la pellicola degna d’attenzione oltreché piacevole a livello di mero intrattenimento.
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