
Incontri a Parigi: nella poetica di Eric Rohmer
May 9, 2018Les rendez-vous de Paris è una pellicola in tre episodi del regista francese Eric Rohmer, realizzata nel 1995 e collocata a metà del ciclo dedicato ai Racconti delle quattro stagioni (insieme a L’albero, il sindaco e la mediateca del 1993). L’inganno è già nel titolo: allusione ad incontri mancati che di fatto non avvengono o non coincidono con la volontà dei personaggi. La stessa capitale francese, che fa da sfondo alle vicende dei giovani protagonisti, diventa la tela in cui una fitta trama di coincidenze e casualità intralcia la realizzazione dei desideri. Sarà proprio questo senso di frustrazione a definire l’opera tra le più pessimiste della filmografia del cineasta francese. La casualità, presente all’interno del trittico di episodi, sembra dettare le proprie regole e giocare a modo suo con questi giovani amanti, instillando loro dubbi, false speranze ed imprevisti.
Conoscere fino in fondo i personaggi del cinema di Rohmer è impossibile, sia per loro che per noi spettatori: nessuno avrà la certezza assoluta dei ruoli e legami che emergono all’interno delle conversazioni tra sconosciuti o dalle confidenze tra amici. Come in ogni film del regista, assistiamo ad una quotidianità a noi vicina, fatta di lavoro, studio e momenti di svago. Possiamo inoltre riconoscerci nei personaggi e nelle loro dinamiche, magari volendo anche noi quel modo leggero di sapersi raccontare all’altro. L’importanza del caso nei film (condivisa con il maestro Jean Renoir) è una costante in Rohmer e che ritroviamo nella costruzione di Incontri a Parigi. Anche le riprese (in totale economia) sembrano accordarsi a questa linea di pensiero: partendo dai giovani attori (studenti di una scuola di cinema) alle carrellate sperimentate su sedie a rotelle (sebbene Jean-Luc Godard l’avesse già realizzate in Fino all’ultimo respiro nel ‘60) o su Citroen spinte a mano (per più di 100 metri come nell’ultimo episodio in Rue de Tourini). Rohmer rimane fedele al formato 16 mm (non a caso François Truffaut lo considerava “il maestro del 16mm”) e alle lunghe carrellate che seguono i personaggi mentre parlano e passeggiano attraverso i luoghi topici parigini (Beauborg, Trocadero, Montmatre, Museo Picasso) o legati a ricordi personali del regista (giardini, cimiteri, stradine secondarie).
Inoltre non mancano alcuni rimandi alle ambientazioni dei film precedenti come il lungosenna (presente ne Il segno del leone del ’59 e Il raggio verde dell’86) e Boulevard de Cournecelle (La fornaia di Monceau del ‘62). Rispetto agli altri film la mdp è più mobile, funzionale nel riprendere gli attori di fronte, di profilo o da dietro, sempre a distanza variabile da loro. Nel film seguiamo i soggetti che si spostano in movimenti circolari e non sempre rettilinei: le sequenze in cui non camminano fianco a fianco hanno messo alla prova il cineasta (arrivando a spingere lui stesso il carrello). Libertà e sperimentazione continuano anche nelle riprese per la strada: in mezzo al flusso permanente della massa ricca di rumori in sottofondo. Rohmer privilegia la presa diretta (da buon esponente della nouvelle vague) soprattutto per il piano sequenza al mercato (nel primo episodio) in cui le due inquadrature (da davanti e da dietro) del ragazzo e della ragazza danno forma ai loro opposti punti di vista.
La cura per i dettagli contraddice da un lato l’aspetto legato al caso ma conferma l’amore per l’arte figurativa di Eric Rohmer. La classicità del suo cinema prende forma attraverso la misura dei gesti, la precisione dei movimenti e l’essenzialità scenografica (non a caso la sua tesi di dottorato era “sull’organizzazione nello spazio nel Faust di Murnau”). Inoltre Rohmer, intervenendo personalmente nella scelta degli abiti (proposti dagli attori) come negli oggetti di scena, compie una precisa scelta cromatica. Lo spettatore può percepirla fin dalle prime inquadrature attraverso la modulazione di colori primari: il rosso del cardigan, il blu del vaso, il giallo di una stampa di Mirò (che ritorna al finale nella fontana di Tinguely e Niki de Saint Phalle). Incontri a Parigi porta con sé una dimensione percettiva dell’arte come parte integrante della città: come nel dipinto di Picasso (da cui prende il titolo il terzo episodio) vi è un nuovo spazio, non più prospettico ma smontato, in cui ambiente e persona si intersecano. Le sculture e i quadri non si limitano ad essere fondo scenografico, ma sono anche argomento di discussione dei personaggi.
I tre episodi si aprono con due cantastorie (performance che ricorda quella presente nel primo lungometraggio: Il segno del leone) che ci introducono in uno spaccato della vita dei protagonisti e che confermano il rifiuto di un uso convenzionale della musica extradiegetica da parte del regista. La struttura episodica del film (già presente in Reinette e Mirabelle dell’87) fa assumere ad ogni storia un valore in sé, lasciando più margine ai personaggi. Le loro azioni sono importanti quanto le parole: (binomio presente già nel ciclo dei Racconti Morali come in quello delle Commedie e Proverbi), ma ora le allusioni non ci aiutano a ricostruire ciò che è accaduto o meno. Rohmer prende le distanze dai possibili significati e rimandi celati nelle frasi dei personaggi, rimanendo osservatore della natura fenomenica, eppure l’ambiguità dei dialoghi come i gesti degli attori (improvvisati o meno) ci fanno pensare ad una realtà in cui verità e menzogna si confondono. Alcuni personaggi maschili che non vediamo (fidanzati o mariti) vengono di fatto nominati: la loro assenza riempie quei vuoti lasciati dall’incomunicabilità degli amanti.
Rohmer ritorna sempre alla Comédie humaine, apportando in ogni film lievi variazioni all’intreccio narrativo: la sua poetica è fatta di eventi minimali, emozioni incerte e immagini raffinate, ponendo al centro non solo l’arte, ma anche il mondo femminile e dissertazioni filosofiche. Incontri a Parigi non ha flashback, flashforward né montaggi alternati ma già nel primo episodio: Appuntamento alle sette, assistiamo ad una serie di capovolgimenti di fatti e ruoli dei personaggi (i cui nomi sono ripresi dal teatro classico francese di Corneille e Racine). Nel secondo episodio: Le panchine di Parigi, il mondo delle lettere (lui è insegnante) incontra quello della matematica della protagonista: Parc de la Villette diventa il loro percorso non lineare, ostacolato dall’alternarsi di approcci e rifiuti, passeggiate senza meta e procrastinazione. Gli appuntamenti, segnati in agenda, danno alla narrazione una forma diaristica sviluppata in più giorni.
La scultura, che Rohmer riteneva vicina alla messa in scena, in quanto plasmata dei gesti degli attori diventa la metafora del desiderio (rappresentato in un luogo pubblico) inespresso del protagonista ma traslato nel nudo della statua. La considerazione sul Bello nell’arte ha gettato le proprie basi per trovare maggiore spazio nel terzo episodio: Madre e figlio 1907, in cui i nomi dei personaggi vengono ridotti ai ruoli interpretati (il pittore, la svedese e la ginevrina). Tutti e tre lavorano nell’arte (o se ne interessano) ed esprimono le proprie opinioni all’altro. La tela del pittore diventa lo specchio in cui si riflettono figure incomplete, mentre la sua spinta alla rappresentazione della realtà fatica a completarsi.
Il protagonista è diviso da due mondi femminili agli antipodi: da un lato la svedese apollinea in disaccordo con lui sull’arte e dall’altro la sconosciuta (incontrata per strada e seguita nel museo) che rappresenta il mistero della vita da catturare per completare il dipinto. Quest’uomo irrequieto, scisso in due vite (come il protagonista de Le notti di luna piena dell’84 o del Racconto di primavera del ’90) è una sorta di autoritratto di Rohmer: il regista come il pittore non trasforma la natura delle cose ma ne coglie la bellezza e unicità che c’è già, afferrandone una parte per continuare la ricerca.
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