In Lebanon e Foxtrot dove “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”

In Lebanon e Foxtrot dove “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”

May 18, 2018 0 By Alessia Ronge

foxtrot posterLebanon (2009) e Foxtrot (2017) hanno in comune il regista israeliano Samuel Maoz. Quando parliamo di Maoz non possiamo non citare la Mostra del Cinema di Venezia, infatti, il regista non solo vince con Lebanon il Leone d’oro come miglior film, ma dopo ben 8 anni si ripresenta sempre al Lido di Venezia con la sua seconda opera Foxtrot.
Lebanon racconta la guerra in Libano del Giugno 1982: in un villaggio bombardato dall’Aviazione Militare Israeliana entra un carro armato carico di armi. A bordo quattro giovani soldati: Shmulik l’artigliere, Assi il comandante, Herzl l’addetto al caricamento dei fucili e Yigal l’autista.
Foxtrot inizia come un vero incubo per i coniugi Feldman ai quali è annunciata la morte del figlio soldato, in servizio presso un posto di blocco isolato e dimenticato da tutti. Nel primo dei tre atti, il capofamiglia è alle prese con le conseguenze della tragica notizia e dell’immediata elaborazione del lutto. Un primo colpo di scena rivela che il figlio è ancora vivo. Nel terzo atto torniamo dai suoi genitori, dopo una nuova e inaspettata svolta narrativa.

L’esordio del primo film è ambientato interamente nel carrarmato. Lo spazio claustrofobico nel quale siamo costretti a rimanere per sopravvivere è una geografia dell’anima, assi cartesiani dai quali non possiamo fuggire. Specchio di un melodramma estetizzante, una costruzione visiva dominata da un incedere di invadenti primi piani che scrutano fino al midollo la sensibilità dei quattro ragazzi strappati alla loro quotidianità. “Soldati” impressionabili e inesperti sopravvivono dentro il “Rinoceronte” contro una guerra non voluta, un nemico da non condannare, verso una terra “promessa”. Quello che colpisce di Lebanon è l’occhio sulla componete umana di ogni guerra. Un occhio che diventa un linguaggio per una grammatica cinematografica ritmata, bella ed etica che si muove e prende vita dall’incedere stesso del carrarmato. Noi vediamo all’interno del cingolato attraverso gli occhi dell’addetto al cannone; ciò che accade fuori è filtrato dal suo mirino ed ogni volta che cambia lente per avvicinarsi o allontanarsi, si trasforma in un espediente per un discorso sul cinema mimando così uno stacco di montaggio.

Lo sguardo è chiave di lettura del mondo esterno, di quello interiore dei personaggi e quindi dello stesso spettatore. Il carro armato si fa una camera oscura con lebanon postertanto di schermo (il mirino) e di spettatore (l’artigliere): un kammerspiel in cui si misurano morbosamente corpi, volti e occhi lucidi penetrati fino all’iride.

In Foxtrot troviamo nuovamente la guerra combattuta non solo sul campo, ma fra le mura casalinghe in cui ogni genitore attende il ritorno del figlio. Nel primo atto si affronta il dolore di una famiglia che scopre che il suo Jonathan non c’è più. Il padre Michael, architetto israeliano, è disperato e oppresso dalla sua stesse mura domestiche che paiono non lasciarlo respirare: stritolato da lunghissimi primi piani. Dall’altra parte la moglie Dafne confusa verso la sua patria e sul perché le abbia inflitto un simile dolore. Arriviamo così al secondo atto, completamente differente sia nello stile che nei contenuti. Siamo in un checkpoint in mezzo al nulla dove Jonathan (il figlio dato per morto) e i suo commilitoni si trovano in un costretto immobilismo.  Un posto di blocco dove transitano “fantasmi muti”, dromedari e giornate scandite da quanto sprofonda il container che li ospita. Giorni tutti uguali, ma che sanciscono quaranta minuti di arioso cinema surreale, dal sapore di commedia, musical, cinema d’animazione ed erotico. Un contrasto perfetto per un ultimo atto dominato invece, da crudeltà, cinismo e futilità.

Del resto il foxtrot è un ballo semplice: un danzatore si muove in quattro direzioni prima avanti, poi a destra, indietro, a sinistra e di nuovo avanti. Illusione di poter padroneggiare i quattro punti cardinali i piedi rimangano invece fermi incollati al terreno ritornando esattamente al punto iniziale. La danza di un uomo con il suo destino in cui domina un senso di stasi soffocane: metafora di una grammatica filmica che pare in movimento per poi ritornare al punto di partenza.

Lebanon e Foxtrot due film della stessa pellicola. La guerra come tematica di fondo. La scrittura registica è un discorso ampio sul come tutto si trasformi perché tutto resti uguale. Del resto Lebanon termina con un campo di girasoli appassiti e Foxtrot è l’incarnazione stessa del movimento inteso come illusione. Entrambi sono una manifestazione tra il controllo e l’impossibilità di esercitarlo fino in fondo, diventando così il fine ultimo del film stesso. Dove occhi che guardano: da un lato quello dell’artigliere e dall’altro che del padre e del figlio su uno stormo di uccelli. Occhi che non comprendono, non controllano perché tutto è movimento imprevedibile: un flusso che non può essere previsto in cui “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Alessia Ronge