
Our Song to War, una goccia nel mare di Cannes71
May 19, 2018Edizione di cui si è chiacchierato a lungo ancor prima che iniziasse (Netflix bannato assieme ai selfie sul red carpet + programma festivaliero apparentemente non entusiasmante) e di cui, mentre si avvia alla sua naturale conclusione, si sta parlando più per la videochiamata con FaceTime di Jean-Luc Godard, la gente in fuga da The House of Jack Built di Lars von Trier e la parata in pompa magna di attrici contro gli abusi nel mondo dello show business che per la qualità dei film proiettati, la 71ma volta di Cannes è sicuramente all’insegna del cambiamento in atto nell’industria cinematografica. In tutto questo fluire di mondanità e splendore, è giusto anche volgere lo sguardo alla sezione Quinzaine des Réalisateurs.
Con Our Song to War, la regista Juanita Onzaga (classe 1991), già vincitrice del premio della giuria alla Berlinale67 nella categoria miglior cortometraggio (The Jungle Knows You Better Than You Do, documentario), porta con sé gli spettatori in nella regione di El Choco in Colombia dove la società umana è ancora relegata ai margini di una natura pressoché incontaminata, minacciosa, ostile, inospitale. Il germe tumorale del progresso (diboscamenti, abbattimento degli indigeni, estinzione di specie vegetali e animali) non ha ancora attecchito completamente, ma c’è.
Tra frasi sussurrate e vocalizzi baritonali, pirati e lucertole, gorgheggi propiziatori e uomini-coccodrilli (l’eco lontana di The Shape of Water et similia), costruzioni abbandonate e barcarole spinte da motori Yamaha con turbofighe disegnate sopra, pesci che boccheggiano alla disperata ricerca d’ossigeno e suoni ovattati di persone che fanno il bagno, Our Song to War è soprattutto una storia di fantasmi. Le carrellate sul fiume attorno al villaggio di Bojava (Colombia) ricordano, per gusto estetico, quegli stock footage terribilmente stonanti che andavano di moda nella Hollywood degli anni ’50 (da Mogambo di John Ford a La regina d’Africa di John Huston, passando per Le nevi del Kilimangiaro diretto da Henry King), solo che i filmati di cui fa uso Juanita Onzaga sono tutt’altro che fasulli e raccontano di un mondo che a fatica riemerge dalla guerra e che vive a stretto contatto coi morti.
La morte. Una delle scene più significative di Our Song to War mostra tre ragazzini spaventarsi a vicenda in un cimitero immerso nel verde e parlare di chi è lì sottoterra. Dialogano tra di loro, ma non mancano di rivolgersi anche ai defunti. Alternativamente, i vivi (sempre in primo piano) e le lapidi (sullo sfondo) vengono mostrati sfocati senza che ci sia la predominanza di alcun elemento. Entrambe le dimensioni, terrena e ultraterrena, convivono nello stesso frame, concettualmente nel medesimo spazio. Durante la Belle Époque la gente si trovava nei cimiteri per banchettare e trascorrere ore liete ricordando chi non c’era più, ora si porta un saluto a cavallo tra ottobre e novembre per essere in pace con se stessi. Quasi un dovere morale. In tal senso, quella di Our Song to War è una lezione di come certe usanze del “terzo mondo” forse farebbero bene a tornare. Per vivere meglio.
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