
End of Justice: Denzel Washington tra carriera e coerenza
May 21, 2018Di certo a End of justice – Nessuno è innocente non mancano le ambizioni, ricco com’è di espliciti riferimenti a tutta quella gamma di diritti individuali tornati ad ornare le pellicole hollywoodiane in relazione alla controversa elezione trumpiana, e forte anche di una tematizzazione etica e moraleggiante animata da un Denzel Washington onnipresente (non a caso candidato agli Oscar). Alla sua seconda prova da regista, lo sceneggiatore Dan Gilroy pare dunque aver lasciato per strada parte della fluidità e dell’azione che avevano caratterizzato Lo sciacallo per tentare una via più istituzionale, forse in cerca di riconoscimenti peraltro non raggiunti.
Lo ritroviamo infatti a quattro anni di distanza da quel brillante esordio (con in mezzo la sceneggiatura di Kong: Skull Island) alle prese con un dramma giudiziario animato perlopiù dal suo protagonista – imbolsito per l’occasione – e da un Colin Farrell nei panni del tentatore mefistofelico George Pierce. L’avvocato Roman ha infatti passato più di trent’anni di carriera a difendere i reietti nel piccolo studio del ben più noto socio William, che colpito da infarto sancisce la chiusura definitiva dell’attività già sommersa dai debiti. Con le tasche vuote, Roman dovrà battagliare con le proprie convinzioni e la propria storia personale (è un ex attivista per i diritti delle minoranze) prima di scendere a compromessi proprio con il collega George Pierce, cinico avvocato di successo. Sarà allora tale scelta a sconvolgere la vita del protagonista, catapultato per necessità nel mondo che ha sempre tentato di contrastare.

Il regista Dan Gilroy prepara una scena con Denzel Washington
End of justice ha quindi buon gioco nel raccogliere i fili del più classico dei problemi cinematografici, utilizzando un protagonista geniale e disadattato al punto giusto – ancorato nel passato tanto nella routine quotidiana quanto nell’aspetto fisico – per inserirlo nel contesto a lui meno congeniale e farne emergere le conseguenze sia a livello interiore che di interazione con il prossimo. Non sarà dunque un caso se il nuovo posto di lavoro porterà con sé non soltanto uno stravolgimento morale ma anche una scossa sentimentale, per quanto colpevolmente lasciata in superficie nell’economia simbolica della pellicola, che si limita a procedere per accumulo di singoli eventi a sé stanti per poi culminare in ciò che si mostra già nella sequenza pre titoli di testa. Nella migliore tradizione del legal-drama di interni, di scartoffie e di uffici, il lavoro di Gilroy si apre al mondo del proprio protagonista collocandolo al centro di ogni inquadratura, descrivendone le paranoie (il cantiere di fianco all’appartamento) e le doti fuori dal comune (quelle mnemoniche in particolar modo) senza mai ricorrere al dialogo didascalico che le espliciti e le renda certe. Saranno gli eventi e le reazioni di Roman a mostrare allo spettatore la pasta del soggetto: testardo, impulsivo, orgoglioso.
Sono quindi tali segni distintivi a renderlo da un lato particolarmente ambiguo, talvolta irritante, e a farci intendere dall’altro la distanze che il cineasta desidera prendere dalla propria creatura di finzione. Non mancano certi inserti di commedia amara che spingono la pellicola su di un livello di duplice critica sociale: emblematico in questo senso pare il dialogo/rissa verbale tra Roman e una giovane attivista, che mostra in un rapido scambio di battute come vecchie e nuove convinzioni si scontrino addirittura all’interno della stessa subcultura, relegando Roman alla marginalità persino nell’ambiente che ha contribuito a emancipare. Si intrecciano allora interessi economici e ambizioni a una coerenza da mantenere e difendere, e ancora il passato idealizzato al necessario rinnovamento – che nel caso di specie si traduce anche in una rinascita estetica – per fare da motore narrativo a una pellicola che mette tanta carne al fuoco pur andando poco in profondità.
Se è infatti fuor di dubbio che End of justice vanti tutte le premesse per un legal-drama memorabile, è altrettanto legittimo considerarne criticamente l’esecuzione. Come accennato, l’impressione è che il lavoro di Gilroy dia il meglio nel sedurre lo spettatore con un prodotto vestito di tutto punto, lasciando però che i valori del progetto si tramutino in limiti causati da una scarsa omogeneità: cast invidiabile, regia pulita arricchita da sequenze eccellenti – in particolar modo quelle di maggior travaglio interiore di Roman – tanto per l’utilizzo del montaggio interno quanto per quello del suono, tentativo di bilanciamento degli elementi drammatici, romantici e persino comici, tematizzazione più che mai attuale e focus su di un protagonista abbastanza fuori dagli schemi da destare naturale interesse. Ciò che lascia interdetti è appunto l’approssimazione con cui tutto ciò sembra venire assemblato, originando una pellicola a tratti apprezzabile ma non completamente risolta.
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