
Lady Macbeth, nelle spirali della crudeltà
May 31, 2018Lady Macbeth è il primo lungometraggio di William Oldroyd, regista britannico che nel 2013 aveva vinto al Sundance London Short Film Competition con il corto Best, mentre prima poteva contare su una notevole carriera come regista di teatro grazie ad adattamenti di Ibsen, Sartre e Beckett. L’impostazione teatrale è facilmente riscontrabile in Lady Macbeth, che al contrario di quello che si potrebbe subito pensare non è legato all’opera teatrale di Shakespeare bensì al romanzo di Nikolaj Semënovič Leskov del 1863. Tuttavia i debiti verso l’opera del drammaturgo inglese sono evidenti.
Durante la lunga e improvvisa assenza del marito, Katherine rimane sola in una grande casa ubicata nelle campagne inglesi di metà Ottocento. Nella totale solitudine troverà conforto e passione nell’improvvisa relazione con uno stalliere, ma una volta che il severo marito farà ritorno i due si spingeranno fine alle estreme conseguenze pur di non essere scoperti.
Il film si apre con un canto in chiesa durante il matrimonio di Katherine e il suo volto è l’unico che ci è permesso vedere, dietro il velo dell’abito da sposa, mentre sta per andare in sposa ad Alexander. I due vivranno nella casa di campagna del suocero Boris, un rigido e mefistofelico anziano che possiede grandi pezzi di terra nella campagna inglese. L’ambiente scenico della successiva notte di nozze che non verrà consumata ci delinea già il quadro sociale in cui la donna è costretta a vivere: lei deve accogliere il marito al suo ritorno, non deve mai uscire di casa perché altrimenti rischia di ammalarsi e non deve opporsi al pensiero di una società profondamente patriarcale e maschilista.
La donna è relegata solamente ad essere una figura che serve a riempire il vuoto di una casa sterile, dove soggiace il silenzio di una servitù alienata che non è più neanche capace di riconoscere la propria condizione sociale, di scindere il giusto e lo sbagliato. Se nella prima parte del film assistiamo e tifiamo per una donna che cercherà di rompere i limiti non solo spaziali della casa (prendendosi la libertà di uscire all’aperto, cosa tanto innocua eppure tanto temuta dalla servitù), ma anche limiti del ‘buon costume’ impostogli dal suocero e dal marito, trasgredendo così la rigida relazione con il suo consorte per intraprendere un processo di scoperta e riappropriazione del proprio corpo e della propria femminilità.
Katherine è una donna che per emanciparsi è inevitabilmente costretta a sporcarsi le mani di sangue e diventare carnefice, non solo del corpo del suocero, del marito e infine del povero e innocente pupillo, ma anche della propria stessa anima, delle convinzioni e dei sentimenti verso anche l’unica persona che amava, lo stalliere che sarà costretto anch’esso a diventare vittima di Lady Macbeth, e non più Katherine.
L’inevitabile pessimismo di fondo del film raggiunge vette altissime nel finale, tanto che lo spettatore non sarà più in grado di patteggiare per la protagonista, e l’esasperato cinismo, che culmina nell’ultima e innocente vittima, suscita non pochi dubbi sull’attuale riflessione politica che esplicitamente si coglie nello sguardo del regista, totalmente incentrato su Katherine e inevitabilmente impietoso su un’umanità incapace di redimersi (su quel versante il bistrattato L’Inganno di Sofia Coppola è più convincente).
William Oldroyd tuttavia, nonostante questa parentesi sul finale, confeziona un film ricercatissimo sul piano pittorico che colpisce per la composizione scenica con cui coglie la sua protagonista e i personaggi comprimari all’interno degli opprimenti e spenti spazi della casa, perennemente sospesi in un continuo gioco che miete vittime tra inquietanti silenzi, non detti e fuori campo.
In questo Oldroyd non cede mai a facili sensazionalismi stucchevoli e barocchi grazie ad uno sguardo perennemente asettico, freddo e crudo sugli avvenimenti, mai commentati da superflui commenti musicali, e per questa consapevolezza gli deve essere dato atto.
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