Hotel Gagarin: sogno di un film o film di un sogno?

Hotel Gagarin: sogno di un film o film di un sogno?

June 12, 2018 0 By Alessia Ronge

Simone Spada dopo oltre vent’anni da aiuto regista per film come Non essere cattivo di Claudio Caligari, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e Che bella giornata di Gennaro Nunziante confeziona quello che potremo definire il suo “primo” lungometraggio Hotel Gagarin. L’uso delle virgolette non è per pura “deformazione poetica”, ma semplicemente perché l’opera prima è un inosservato Main – La casa della felicità.

Abbiamo un professore di storia (Giuseppe Battiston), un operaio squattrinato (Claudio Amendola), un fotografo inseguito da spacciatori (Luca Argentero), una prostituta (Silvia D’amico) e una produttrice imbrogliona (Barbora Bobulova) che non sono l’inizio di una barzelletta, ma i cinque protagonisti o, per meglio dire, dei reietti con tanta voglia di cambiar vita e convinti poi da un produttore a girare un film in Armenia. Quando arrivano all’Hotel Gagarin, un albergo isolato e circondato da un’infinita coltre di neve, scoppia una guerra. Il produttore rimasto in Italia fugge con i soldi lasciando i sogni dei cinque, frantumarsi in mille pezzi.

Una commedia divertente, poetica e completamente sgangherata come del resto sono gli stessi protagonisti che si dimostrano un cast affiatato e capace di trasportarci in un mondo sognante, fatto di celluloide. Il film, infatti, fa cinema, parla di cinema e in esso trova linfa. Quello proposto da Spada è un “cinema di magia” e, come lo stesso Gagarin disse: “La terra vista dallo spazio è un posto bellissimo senza confini né barriere”, così il film ricorda come il cinema sia un luogo delle meraviglie senza confini. Hotel Gagarin a metà strada tra un Overlook Hotel di Shining, un Grand Budapest Hotel e perché no un castello incantato, ragiona sull’idea primordiale della settima arte intesa come “fabbrica dei sogni”.

Hotel Gagarin recensione

Lo scopo iniziale del lungometraggio è quello di girare un film, ma lo scoppio della guerra frantuma gli inziali presupposti; l’escamotage narrativo diventa un vero pretesto per un cambio di registro trasformandosi in qualcosa di totalmente diverso e interessante quasi magico, surreale e poetico. Un elogio al potere dell’immaginazione con una variante inedita del road movie e anziché su strada il viaggio avviene solo con la mente. Il film diventa così un grande percorso per gli stessi personaggi che, nel frattempo, passano dalla chiusura mentale all’apertura e dall’egoismo all’altruismo. In questo cambiamento gioca un ruolo chiave la fotografia di Maurizio Calvesi che dipinge il film con una coltre di neve determinandone bellezza sconfinata e una struggente malinconia.

Hotel Gagarin è cinema della nostalgia, alla vecchia maniera, sincero, imperfetto e artigianale. Questo cinema non tornerà e, nonostante il regista faccia di tutto per trasmettere un messaggio di speranza toccando il tema della felicità (“Se vuoi essere felice, comincia” diceva Tolstoj), viene da riflettere se anche la vecchia Italia esista ancora e se, per ritrovare un po’ di calore e gentilezza, sia necessario andare lontano fino in Armenia. Per questo motivo appare un film fuori tempo soprattutto nella seconda parte, nella quale la direzione “magica” (si veda il personaggio di Philippe Leroy) prende il sopravvento. Hotel Gagarin è un’opera imperfetta che pecca di ingenuità anche nei confronti dei personaggi talvolta sviluppati in modo semplicistico.

Siamo sinceri: chi oggi ha il coraggio di fare un film del genere? Il regista non procede in senso profondo, serio o intellettuale, ma con garbo ed educazione rara. Del resto è una commedia e anche molto differente da quella che il panorama italiano attuale ci ha abituati; capace di cogliere la vera essenza del cinema: il raccontare sogni con una bella storia.

Il film galleggia fra il sogno di un film o il film di un sogno. Geoger Méliès il primo a comprendere la vera magia del cinema, l’arte d’illusione senza però svelarne il trucco. Hotel Gagarin si trova a metà strada fra magia a trucco, tra agilità e artefatto e come il razzo di Viaggio sulla Luna dichiara la sua natura artificiosa, ne lascia però intatta la magia cinematografica.

Alessia Ronge