
Il Cinema Ritrovato 2018: Giorni d’amore, il matrimonio come avventura
June 26, 2018“Come sono passati in fretta questi giorni”
Pasquale e Angela vogliono sposarsi, ma non hanno abbastanza soldi. Le spese da sostenere per quel fatidico giorno sono troppe (gli abiti, le bomboniere, la festa), allora i due decidono di fingere una fuga per far credere che abbiamo già “consumato” e quindi si debba ricorrere in fretta a un matrimonio riparatore. Idea geniale o preludio d’imprevisti e complicanze? Entrambe le cose, ma l’amore vince perché non può fare altrimenti.
Riproposto al 32mo festival de Il Cinema Ritrovato all’interno della sezione interamente dedicata al divo italiano per eccellenza, Marcello Mastroianni (qui protagonista con Marina Vlady), Giorni d’amore è un film sull’impeto carnale di un uomo con qualche esperienza e sulla ritrosia di una donna nel concedersi per la prima volta, sull’inseguirsi, sull’unirsi, sull’inscenare una menzogna, nonché un interessante viaggio in quell’Italia fatta di contadini nell’immediato dopoguerra. Un mondo lontano dalla spocchia borghese di nullafacenti, bensì fatto di esseri umani con calli alle mani e il cui patrimonio è costituito da un pezzo di terra, qualche animale, molte tradizioni e una gran voglia di vivere. La povertà è tale che il vestito per il grande giorno deve poter servire anche per il funerale.
Si tratta di gente che ha tempo di guardare il cielo solo per capire se pioverà oppure no (l’incanto rilassato, senza la stanchezza del lavoro, di godersi un cielo stellato è accolto dai protagonisti con grande gioia) e di una nazione in cui Comunismo e Democrazia Cristiana convivono forzatamente (la falce e il martello disegnate di fianco al manifesto della DC, bei tempi). La bilancia della giustizia in Giorni d’amore pende di più a favore degli umili piuttosto che nei confronti della Chiesa: il pretino, grassoccio e annoiato, mostrato sempre mangiare qualcosa è emblema della posizione politica di chi il film l’ha scritto. Una critica che assume i toni di un attacco spiritoso. In fondo, chi meno degli uomini di fede possiede il senso dell’umorismo?
Tra gli sceneggiatori figura anche Elio Petri (A ciascuno il suo), ma, se non lo si sapesse, difficilmente si tenderebbe a collegare il futuro regista di Todo Modo a un film come Giorni d’amore. La regia è di Giuseppe De Santis, uno degli alfieri del neorealismo, per un film che non ambisce alla grandezza di Riso Amaro e che non è nient’altro che una storia semplice fatta di personaggi semplici e narrata con semplicità.
Di grande impatto l’uso del colore, che nel cinema italiano dell’epoca è ancora scarsamente utilizzato (le prime pellicole non in bianco e nero sono uscite solo un paio d’anni prima), con cui si dipingono paesaggi e volti con sfumature uniche.
Nello specifico, è soprattutto il rosso a distinguersi maggiormente e sembra essere della stessa tonalità di quello impiegato in Un uomo tranquillo (John Ford, 1952) e che anticipa quello di cui si servirà Yasujiro Ozu nei suoi ultimi lavori dietro la macchina da presa (Fiori d’equinozio, il primo film a colori del regista giapponese sarà di qualche anno più tardi, il 1958). Se in Ozu saranno rosse le teiere, gli ombrelli, le tende e in Un uomo tranquillo lo erano state la cravatta di John Wayne o la gonna di Maureen O’Hara, in Giorni d’amore sono i pomodori, le canottiere, le buche delle lettere, la fascia sull’abito talare, il peperoncino, le angurie. Un’esaltazione cromatica troppo bella per non essere notata.
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