Il Cinema Ritrovato 2018: Double Feature su One More Spring e 6 Hours to Live

Il Cinema Ritrovato 2018: Double Feature su One More Spring e 6 Hours to Live

June 30, 2018 0 By Simone Tarditi

Nella sezione Riscoperte dalla Fox Film Corporation de Il Cinema Ritrovato, giunto quest’anno alla sua 32ma edizione, sono presenti due titoli con Warner Baxter, divo americano vincitore nel 1928-29 del secondo Oscar della storia per In Old Arizona, film che avrebbe dovuto interpretare e dirigere Raoul Walsh se non avesse avuto un serio incidente d’auto poco prima delle riprese (perse un occhio, da qui l’uso della famosa benda nera da pirata) e di cui, sempre durante la manifestazione bolognese, viene proposto Women of All Nations (1931). Le infinite, tortuose e sorprendenti vie del cinema.

Due pellicole diverse per molti motivi. La prima, One More Spring, è una triste commedia ambientata a New York durante la Depressione diretta da un colosso come Henry King. Del regista, sempre a Bologna, nel 2016 vi fu un’indimenticabile proiezione con lanterna a carbone di Stella Dallas (1926) in Piazzetta Pasolini (una stupenda e immacolata copia in 35mm). Nel cast di One More Spring c’è anche Janet Gaynor, che invece vinse il premio Oscar nel biennio 1927-28 per 7th Heaven, proiettato quest’anno in Piazza Maggiore e di cui, strano caso, King avrebbe girato nel 1937 un remake con Simone Simon e James Stewart. Insomma, tutto torna.

Il secondo film è 6 Hours to Live, difficile da rinchiudere in un solo genere perché mischia assieme mistero, fantascienza, thriller, dramma, horror e qualche germe di superomismo. Dietro la macchina da presa c’è il tedesco William Dieterle, già attore nel Faust di Murnau e futuro regista di due importanti film con Paul Muni: The Story of Louis Pasteur (1936) e The Life of Emile Zola (1937), ma procediamo con ordine.

One More Spring 1935

One More Spring (Ritornerà primavera, Henry King, 1935)

La crisi economica seguita al crollo della Borsa nel 1929 ha messo a dura prova anche un commerciante d’antiquariato (Warner Baxter), un’attrice (Janet Gaynor) e un violinista (Walter Woolf King), che, dopo essersi incrociati per caso, finiscono per condividere la stessa dimora: un capanno per gli attrezzi nel bel mezzo di Central Park a New York. Giorno dopo giorno, le cose andranno meglio per tutti.

Una trama ridotta all’osso, sicuramente non il punto di forza del film, ma l’attenzione del regista è focalizzata più sul contesto attorno ai personaggi che alle loro vicende, questo è chiaro. Fortemente voluto proprio da Henry King nonché una delle ultime produzioni della Fox prima che si fondesse con la Twentieth Century, One More Spring è un’iniezione di fiducia contro lo sconforto dilagante durante la Depressione americana senza sortire gli effetti sperati (flop al botteghino).

I protagonisti, le cui professioni possono rientrare tranquillamente nella categoria tremontiana del “con la cultura non si mangia”, sono l’emblema di tutta quella moltitudine d’individui sul lastrico a cui è rimasta solo la dignità e che hanno resistito al suicidio di massa evitando quindi voli senza ali dai grattacieli, fluttuazioni con cappi attorno al collo e tuffi dentro laghi in pieno inverno. Sono così poveri che possono concedersi solo più il lusso di un pezzo di pane, un bicchiere di latte, un uovo sodo eppure sono pronti a condividerlo con i loro simili.

Rispetto al divorarsi come squali che è atteggiamento tipico di chi sguazza nel benessere, la solidarietà è, almeno in One More Spring, l’elemento che lega insieme gli umili. Un messaggio positivo, però è difficile rimanere di buonumore quando lo stomaco è vuoto e nella notte si sogna la gloria, il cibo, mentre l’alta società gozzoviglia e s’ingrassa a party a base di leccornie e champagne mentre dal soffitto cade una pioggia di palloncini colorati. Tuttavia, lì risiede il cuore del film: non smettere di sperare in un domani migliore.

Sul discorso dell’essere solidari, vale la pena citare l’episodio dell’anziano flautista emigrato da Düsseldorf che “ruba” involontariamente l’angolo di strada che il violinista è solito usare per suonare e racimolare qualche moneta. Tra i due dovrebbe scattare, in automatico, un meccanismo di concorrenza, ma non solo ciò non accade, ma addirittura subentra la cooperazione tra simili, l’aiuto reciproco. Due poveri sono sempre più inclini a darsi una mano a vicenda.

Sullo sfondo di una narrazione chiaramente vicina alle classi subalterne, rimane oggi inqualificabile una scena che è purtroppo figlia dell’epoca in cui One More Spring è stato realizzato. Viene mostrato un guardiano dello zoo che, essendo nero e quindi (nella mentalità dei tempi) stupido, si fa raggirare dai protagonisti a suon di musica perché, si sa, gli afroamericani hanno il ritmo nel sangue e pertanto non possono resistervi. Un momento ignobile tanto quello, per altri motivi, della scimmietta nel già citato Women of All Nations. Tolto questo, tutto bene.

6 Hours to Live (Ancora sei ore di vita, William Dieterle, 1932)

Il signor Onslow (Warner Baxter) è un diplomatico inviso a molti e per questo motivo viene fatto uccidere. Grazie a uno speciale macchinario, uno scienziato lo riporta in vita, ma solo per sei ore. Durante questo breve lasso di tempo il protagonista deve trovare il suo killer, ucciderlo, e intanto fare i conti con tutto ciò che ha lasciato in sospeso.

6 Hours to Live è un film curioso, non canonico, mai totalmente affrancato dall’epoca del muto, soprattutto quando palesemente la narrazione procede più attraverso le immagini che per mezzo dei fiacchi dialoghi, e innegabilmente influenzato dal cinema europeo (Dieterle lasciò la Germania non prima di un lungo apprendistato in veste di attore, regista e con numerose esperienze alle spalle tra cui l’essere stato allievo di Max Reinhardt).

Il protagonista è un uomo proto-nolaniano e volendo compiere un salto cronologico di decadi si può avvicinare 6 Hours to Live a pellicole come Interstellar, The Prestige, persino Memento. È scarsamente probabile che il regista di Dunkirk abbia visto il film, ma tant’è. L’idea alla base è quella del viaggio nel tempo, un concetto tanto semplice quanto complesso: “I’m here in time and that’s all It counts” dice Onslow verso la fine ed è una battuta sensazionale. Notevole anche, poco dopo, la distruzione della macchina che gli ha ridato la vita perché, nonostante i benefici, è sbagliato sostituirsi a Dio. Quante volte verrà portata avanti quest’altra idea nella storia del cinema.

Perciò, tra anticipazioni di esperimenti scientifici inumani (una via di mezzo tra il David Cronenberg de La Mosca e il Seconds di John Frankenheimer), manifestazioni di miracoli, conigli bianchi direttamente presi in prestito da Alice nel Paese delle Meraviglie e resurrezioni cristiche (la croce, simbolo della Cristianità, come amuleto portafortuna), il lungometraggio informa di essere meritevole di una visione attenta e che vada al di là delle ingenuità narrate in certi momenti.

Simone Tarditi
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