Il ruolo del trauma nella nascita dei mostri: il Batman di Tim Burton

Il ruolo del trauma nella nascita dei mostri: il Batman di Tim Burton

July 11, 2018 0 By Angelo Armandi

batman tim burtonSenza Frank Miller, probabilmente il vigilante mascherato creato da Bob Kane per DC Comics nel 1939 avrebbe un volto completamente diverso. Senza Frank Miller, probabilmente l’immaginario collettivo sarebbe rimasto radicato nel Batman di Adam West del 1966, una versione parodica, umoristica, un universo coloratissimo e pieno di eccessi senza alcuna minaccia d’ombra.
Probabilmente, senza Il Ritorno del Cavaliere Oscuro, graphic novel di Frank Miller del 1989, non avremmo avuto Tim Burton a lanciare l’universo di Batman così come lo intendiamo oggi. Burton ha avuto il merito di interpretare la cupezza e le innumerevoli tessiture psicologiche del Batman di Miller, fornendogli una tridimensionalità e un realismo che hanno condotto i registi successivi ad attingere alla stessa architettura sociale-antropologica per una visione sempre diversificata del Pipistrello.

Tutti i registi, tutti gli sceneggiatori, tutti i disegnatori hanno individuato nella figura di Batman e negli innumerevoli villains un elemento di conflittualità, dei complessi psicologici, delle dinamiche profondamente umane in cui hanno potuto riversare la propria poetica, le proprie intenzioni, una personale interpretazione del mondo e degli uomini.
Il Batman di Tim Burton (1989) è una appendice dello stesso Burton, pur con tutti i limiti imposti dalla produzione e che non hanno consentito la piena espressione del regista, per la quale bisognerà attendere l’uscita del sequel, tre anni dopo. Il primo film, tuttavia seminale, racconta l’ascesa del detective, interpretato da Michael Keaton, e il confronto con il villain paradigmatico, il Joker, interpretato da Jack Nicholson.
L’approccio autoriale del film, la serietà con la quale l’immaginario fumettistico viene trasposto nel cinema, è un aspetto che scuote sin dai titoli di testa, con la colonna sonora di Danny Elfman, cupa, malinconica, sospesa in una minaccia terribile dal volto ancora sconosciuto.

Lo spessore psicologico del Batman di Keaton è sottile, inafferrabile, quasi evanescente: ha un’aria sempre sospesa tra i pensieri, appare inoffensivo, la sua visione in costume non suscita alcun terrore (la tipica apertura, il biglietto da visita addobbato di paura allo stato puro, “I’m Batman”, passa quasi inosservata). Il rapporto con il maggiordomo Alfred è inconsistente; la relazione a tratti tormentata con il Commissario Jim Gordon non è neanche abbozzata.
Ciò che ispessisce l’universo psicologico di Batman, al di fuori della sua tendenza a conquistare il cuore delle donne (qui dell’incantevole Vicki Vale, alias Kim Basinger), non è neanche embrionale, non è nei presupposti, negli schemi: non esiste, poiché Batman è ancora legato all’idea originaria del paladino: pur senza poteri, un eroe mascherato che sfrutta l’acuto intelletto e le enormi ricchezze che possiede per costruire una tecnologia adeguata a contrastare il crimine, e nel suo operato è piatto, precostituito, imperscrutabile, al di là del bene e del male.

Ciò che è realmente intrigante è la genesi del Joker, argomento da sempre taciuto nella fenomenologia di Batman, tranne la parentesi di Killing Joke di Alan Moore. Qui Jack Napier è un criminale svitato che a seguito della caduta nell’acido ha il volto sfigurato da una chirurgia estetica eseguita con grande approssimazione, e il riflesso nello specchio gli restituisce la pazzia e ne legittima l’emergenza. Analoga cosa accadeva in Killing Joke, pur con le dovute differenze circostanziali.

L’antropologia del Joker è qualcosa che attraversa le varie produzioni filmiche e fumettistiche come un marchio dell’autore, l’estrinsecazione di un soggetto folle che si veste da clown. Quale profilo dargli? Il Batman di Burton non si reggerebbe senza il Joker di Nicholson, l’intera opera ruota attorno alla sua personalità freak, istrionica, pittoresca, volutamente sopra le righe, con una inquietudine che emerge pian piano. Basti confrontare la scena in cui Nicholson impone il proprio dominio su Gotham City agli altri malavitosi con una scena analoga de Il Cavaliere oscuro di Christopher Nolan, per comprendere quanto sia netta la scelta di definire un determinato profilo del villain

In una Gotham City radicata in uno sfumato surrealismo, con una Batmobile vistosa ed elegante, il Batman di Keaton risente ancora di un immaginario fumettistico, poco immerso nell’oscurità pervasiva e tormentata del Cavaliere Oscuro, che sarà invece pregnante nella trilogia di Nolan (e risponderà pienamente a questo appellativo).
A Tim Burton sta a cuore sottolineare altro. E’ già presente il trauma della morte dei genitori, che ha suscitato in Bruce Wayne il desiderio di vendetta/giustizia (confine labilissimo su cui si consuma la gran parte del dissidio del vigilante), per quanto le stigmate non siano ben visibili nel Wayne adulto, che non sembra soffrire del tormento, né è presente ancora il simbolo del pipistrello come elemento di identificazione nella paura (il paradigma di Batman Begins è ancora lontano, a pescare dalla sostanza di Anno Uno di Miller del 1988).
Il trauma di Bruce Wayne è analogo al trauma di Jack Napier: sono entrambi sfigurati. E, come dice il Joker nelle ultime scene del film, è stato lo stesso Batman a creare il Joker. Si intuisce tra i due un legame profondo, una simbiosi irrinunciabile, la genesi della loro reciproca esistenza, come sarà affrontato in altre opere successivamente.

Non rileva tanto il rapporto Wayne/Batman, per il quale Nolan erigerà la sua trilogia, quanto la coesistenza del mostro all’interno della normalità, come la bizzarria sia la conseguenza del trauma, un modo per riscattarsi, nel caso di Wayne, o una maniera per essere liberi di esprimere la propria follia, nel caso di Joker. La filosofia del caos è lontana da quest’opera. Il Joker di Nicholson è un buffone irreale. Anche in questo caso, basta confrontare la scena dell’irruzione di Nicholson nel Fluegelheim Museum con la scena dell’irruzione del Joker di Heath Ledger durante il party nella casa di Bruce Wayne ne Il Cavaliere Oscuro. Piuttosto che raccontare aneddoti, il Joker di Nicholson preferisce parlare per enigmi, per domande, allo scopo lasciare frastornati un attimo prima della morte, per un macabro intento creativo atto a lasciare stupefatti (“Danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?”).

A tutti gli effetti, il Batman burtoniano è un progressivo, coloratissimo sviscerarsi di pazzia da parte del Joker, vero emblema bartoniano dell’opera. Affinché Burton possa manipolare in toto l’universo di Gotham City, bisognerà attendere il sequel, Batman Returns.

Angelo Armandi