Unsane, un altro mosaico assemblato da Steven Soderbergh

Unsane, un altro mosaico assemblato da Steven Soderbergh

July 17, 2018 0 By Simone Tarditi

Unsane Titolo Film

Nelle sale italiane dal 5 luglio, Unsane (presentato alla 68ma edizione della Berlinale) ha raggranellato quattro spicci e sei noccioline al botteghino. Prevedibile. Colpa dell’estate? Colpa della distribuzione che ha inciuccato il periodo in cui farlo uscire? Colpa del pubblico ingrato? Colpa dei migranti? Colpa dei Mondiali di calcio in Russia? Colpa dei saldi? Colpa di Netflix che tiene a casa i cinefili che smettono così di peregrinare nelle sale? A ognuno la risposta che preferisce, senza nulla togliere a Soderbergh che tante altre volte ha trattato (in maniera sempre diversa) il tema dell’insanità mentale: dall’angoscioso Bubble alla nebbia dei blackout mentali di Side Effects e Mosaic. Un tassello ulteriore in una carriera trentennale.

Sawyer Valentini (Claire Foy, già volto di The Crown, una delle serie tv del momento) avverte di essere pedinata, seguita, osservata costantemente da uno stalker ossessionato da lei. Nel cercare aiuto, per errore finisce col firmare un documento attraverso cui autorizza una struttura sanitaria a prendersi cura di lei. Inizia un incubo allucinatorio dal quale proverà a uscire impiegando tutte le forze e le risorse di cui dispone.

Di cosa soffre davvero la protagonista? Paranoia? Sindrome della fanciulla perseguitata? È posseduta dal demonio (Hail Satan dice al suo appuntamento di Tinder)? Oppure è solo una figlia problematica e là fuori non ci sono pericoli reali? Le ambiguità permeano Unsane senza soluzione di venire mai completamente a capo del mistero dietro a un personaggio instabile. Il centro di ricovero mostrato nel film è una via di mezzo tra il Chryskylodon Institute di Vizio di forma e il Bridgewater State Hospital di Titicut Follies. Da un lato sciroccati usciti dalla penna di Pynchon, dall’altro malati tutt’altro che immaginari. Una verità di mezzo va trovata: la malattia è un business, quanto mai in America.

Unsane Soderbergh

Più thriller alla De Palma che horror psicologico, Unsane è un po’ la prova di quanto dietro al talento di Soderbergh, spesso impegnato in produzioni costose come il recente Logan Lucky, si nasconda un’artigianalità che pochi altri grandi registi americani hanno. Unsane, si è già detto, in Italia ha fatto un tonfo sordo al box office, ma altrove (soprattutto negli States) è andato mediamente bene per essere niente più che una piccola produzione (il costo si aggira attorno a 1.5 milioni di dollari) girato quanto più amatorialmente possibile con un iPhone 7 Plus, ossia un modello in grado di effettuare riprese in 4K.

Soderbergh, che ha abbandonato per qualche anno l’ambiente cinematografico salvo poi farvi ritorno dopo aver comunque passato il tempo a fare televisione (da Behind the Candelabra a Mosaic senza dimenticare quel capolavoro in due stagioni chiamato The Knick) o impiegato come direttore della fotografia in Magic Mike XXL, riappare con un progetto destinato in partenza a non diventare uno dei suoi titoli più conosciuti, ma realizzato con un amore immenso verso un certo tipo di cinema categorizzabile senza problemi nella serie B.

Unsane è grezzo e imperfetto come l’opera prima di un qualsiasi esordiente dietro la macchina da presa, contiene lo stesso carico di entusiasmo di qualcuno che si sta divertendo a fare un film solo per il gusto di farlo. Certo, Soderbergh non è un signor nessuno e dispone sia di un cast invidiabile (tra cui Juno Temple e Matt Damon) sia di un budget ben più che sufficiente. È altrettanto vero però che il regista tira fuori dal cilindro un lungometraggio notevole senza aver bisogno di molto.

Si tratta ancora una volta di tracciare la strada, lanciare un segnale, creare uno spartiacque, differenziarsi. Qualcosa che Soderbergh ha sempre fatto. Si prenda il suo ultimo lavoro per la tv, Mosaic, che per non rimanere ingabbiato dentro i confini di una mini-serie diventa anche un’app per gli smartphone e di fatto vive una nuova esistenza narrativa al di fuori del contesto standard dentro cui nascono e muoiono i prodotti seriali.

Il filmmaker americano non è stato l’unico a girare un intero film con un cellulare, ma gli altri l’hanno fatto per necessità, lui per scelta artistica. Scelta artistica che diventa anche bisogno di essere libero e non costretto nelle catene dei grandi studios, capaci di elargire ingenti somme di denaro e con quei soldi tenere per le palle anche i più autorevoli nomi di Hollywood. Soderbergh sa tenere un piede nel mondo indie e l’altro tra le grandi case di produzione riuscendo sempre a essere accettato in ognuno dei due ambienti. Non tutti possono vantare qualcosa del genere. Per dire, ha pronto un altro film costato pochissimo (High Flying Bird, dramma sportivo a tema NBA) e sta per imbarcarsi nell’avventura di The Laundromat, film sullo scandalo dei Panama Papers, assieme a Meryl Streep, Antonio Banderas, Gary Oldman e altri.

Amare Steven Soderbergh vuol dire amare il cinema, puro e semplice.

Unsane Claire Foy

Simone Tarditi