
Appunti sparsi per Becoming Cary Grant di Mark Kidel
August 3, 2018Sono le parole di Frank Sinatra ad aprire il documentario. Frasi scandite con chiarezza, elogi, una voce che sintetizza il pensiero di molti. La consegna dell’Oscar alla carriera che, come in questo caso, sembra poco più di un contentino e di una scusa per non aver conferito precedentemente il premio. Un Oscar alla carriera è un merito che riassume un percorso avvenuto ad alti livelli, ma pesa molto meno di una statuetta vinta per un film in particolare. Tutti lo sanno. Gli attori lo sanno. Ancor più di loro lo sanno i registi, come Alfred Hitchcock.
Cary Grant si nasce, non si diventa. “Cary Grant ha inventato se stesso”. Tutti vogliono essere Cary Grant, persino Cary Grant vuole essere Cary Grant (è una sua battuta). Nessuno vuole essere Archie Leach, il bambino che cresce confuso sulla propria identità perché la mamma gli tiene i boccoli anche quando non è più un neonato e spessissimo gli fa indossare abiti da femminuccia. Nessuno vuole essere un ragazzino che cresce vedendo sua madre non perdonarsi mai per la morte del primo figlio, un fratello che Archie non ha mai conosciuto, ma di cui avverte lo spettro aggirarsi nella mente di quella donna. Nessuno vuole essere un ragazzino di undici anni che un giorno torna a casa e non trova più sua mamma perché il marito l’ha fatta rinchiudere in un manicomio. Sì, è un momento storico in cui basta la volontà del proprio coniuge per far finire una moglie dentro un ospedale psichiatrico. Sì, Archie Leach non vede più sua madre per altri vent’anni né sa cosa le sia successo. Sì, Archie Leach pensa per davvero di essere rifiutato dalla madre. Nessuno vuole essere un quattordicenne che fa un fagottino e va via con una compagnia teatrale senza fare più ritorno a casa. Va via proprio per non dover più tornare da suo papà. Inizia un viaggio che lo porta negli Stati Uniti. New York, Broadway. Poi Los Angeles e Hollywood. Con quel bel volto tutte le porte sono aperte e non solo quelle. In più è anche bravo a recitare, ma non sa cantare. Archie Leach diventa Cary Grant. La gloria, i soldi, la fama, l’attenzione su di sé, le donne, gli uomini, i film. Una vita di successi, ma nessuno vuole essere un uomo senza stabilità relazionale ed emotiva.
Becoming Cary Grant è un flusso di eventi, facce, home movies in 8mm girati dall’attore per documentare episodi della sua vita sui set cinematografici, in mare, a casa, ovunque si ricordi di portare la piccola cinepresa con sé. Ingrid Bergman, Katharine Hepburn, tutte le sue molti mogli. Un tuffo nella sua esistenza, un’autopsia dei suoi stati mentali ricreati e re-immaginati attraverso le pellicole in cui ha recitato, dentro e fuori le pagine della sua mai pubblicata autobiografia. C’è la gloria dello stardom, c’è l’orrore di quello che ha vissuto (la virata sull’internamento della sua mamma è da brividi). Ci sono Venezia e le navi liguri, ci sono il sole e le palme della California. C’è la terapia a base di vinili sul giradischi ed LSD, c’è il discorso sui confini della sua sessualità. Ci sono le figure chiave della sua carriera hollywoodiana: George Cukor che gli dà l’imprinting, Leo McCarey che lo raffina non poco, Howard Hawks che lo rende un attore completo, Alfred Hitchcock che lo spinge nelle zone d’ombra della sua anima e valorizza i demoni che si porta appresso.
Si tratta di un documentario atipico il Becoming Cary Grant diretto da Mark Kidel, che può contare anche d’interviste recenti all’amica Judy Balaban, alla figlia Jennifer, a Barbara, l’ultima moglie. Squarci e frammenti di storie. Il senso d’incompletezza e il rifiuto della celebrazione fine a se stessa possono infastidire il fan che si aspetta la classica narrazione trita e ritrita, quasi televisiva, quasi didattica. Becoming Cary Grant non è nulla di tutto ciò, è molto di più perché mette in moto il potere della suggestione e soprattutto è un progetto nato da una consapevolezza: tutti avranno anche voluto essere Cary Grant, ma nessuno lo è stato, neppure lui. E nessuno è stato neanche nella sua testa. Si tratta di muoversi a tentoni, immaginando e provando a fornire risposte che per la loro natura non possono essere univoche. Rimangono i suoi film, sì, quelli sono destinati a sopravvivere a tutti. A lui, a noi, a chi ci sarà. C’è anche un’altra consapevolezza, implicita e non sbandierata ai quattro venti: quanto più povero sarebbe stato il cinema mondiale senza l’eleganza, lo stile, il fascino, la naturalezza, la bravura di Cary Grant? Tanto.
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