
Lucky: Harry Dean Stanton torna bambino per il suo testamento
August 27, 2018Che passata una certa età si torni bambini è un fatto, direbbe Lucky. Ecco che il Woody Grant di Nebraska si convinceva di aver vinto un premio in denaro e di doverlo ritirare a chilometri di distanza, e il signor Shmidt della quasi omonima pellicola mandava a rotoli ciò che aveva costruito in anni di sacrifici, mentre l’Alvin Streight di Una storia vera attraversava l’America con un tosaerba. Anche qui è un Lynch a fare dell’anziano burbero l’archetipo da commedia drammatica più godibile: si attiva senza ascoltare i consigli, è solo o vorrebbe esserlo, è scorbutico ma nasconde una paura matta per ogni acciacco dell’età. Lucky non è da meno, così scandisce la giornata con ginnastica mattutina, colazione al bar, quiz a premi in tv e drink serale con i conoscenti coetanei, senza farsi mancare il lecca-lecca offerto dal medico di famiglia. La linearità è interrotta proprio da una caduta che richiede gli esami del caso, generando un’attesa che diventa calvario cadenzato da quelle abitudini sacre.
Non può che far ricorso alla parola, alle gag fin troppo verbose, questa piccola pellicola diretta da John Carrol Lynch, che a posteriori fa da omaggio al gigante Harry Dean Stanton. Lui fa l’anziano solitario – quasi un vecchio eroe del West ora in pensione – e Lynch lo segue nelle sue nevrosi. Lucky cerca allora sul dizionario il significato dei termini e poi lo ripete a memoria agli amici del pub, come dovesse alla soglia dei cento riscoprire il mondo, non a caso come un bambino, e poi incontra una donna sola con il figlio di cui diviene amico, e ancora un avvocato prima da prendere a pugni e poi con cui confidarsi, amici da consolare e una tartaruga scomparsa dal giardino, protagonista sin dalla prima inquadratura.
I segmenti che segnano la routine degli anziani di paese sono legati dall’uso ricorrente del montaggio descrittivo e degli establishing shots, sempre accompagnati da una fisarmonica che lo stesso Lucky prova a suonare tra una sigaretta e l’altra. Dunque si racconta più che mostrare, si discute della stupidità di quel gioco con i pacchi in tv, si rievocano i vecchi tempi e di conseguenza si inseriscono nei dialoghi tutte le informazioni espositive che ci aiutano a conoscere il passato del protagonista e degli amici avanti con l’età: alcuni hanno ritrovato la passione amorosa, altri disperati cercano la citata tartaruga compagna di una vita (un David Lynch elegantissimo e stralunato come d’abitudine) mentre uno sconosciuto sarà il grimaldello classico grazie al quale ricordare la guerra.
D’altra parte l’anziano cinematografico non può che far sorridere e allo stesso tempo commuovere, quasi invogliare lo spettatore a passare qualche ora in quella piccola cittadina apparentemente composta soltanto da vecchietti e immersa in un deserto che contribuisce a formare i toni western prima evocati. Lo stesso abbigliamento di Lucky e dei compagni di racconti lo dimostra, dai cappelli agli stivali che abbondano. Così le definizioni ripetute a mo’ di mantra si uniscono alla paura della morte, con il telefono di casa che fa da unico appiglio e fonte di sicurezza, capace anche di sciogliere la solitudine notturna del protagonista.
Il film di Lynch procede quindi per eventi replicati, tante piccole trame che lasciano aperti i pochi interrogativi sollevati. La sensazione è che questi anziani possano ormai per inerzia ripetere le stesse azioni all’infinito e coronarle, come fa Lucky, con piccoli incontri o eventi che diano senso al tempo sempre uguale. Tra questi spicca la festa di compleanno del bambino messicano, che consente a Lucky di prendersi il palcoscenico forse per l’ultima volta: ennesima dimostrazione di come il vecchio trovi nel ragazzino il compare preferito e, a guardarlo oggi, un modo inconsapevole per comunicare le proprie ultime volontà. Il risultato è una sorta di ricatto che impedisce di non voler bene a un film lirico e furbetto quanto basta per accontentare tutti i palati.
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