Venezia75: Roma di Alfonso Cuarón, elegia materna e realismo magico

Venezia75: Roma di Alfonso Cuarón, elegia materna e realismo magico

August 30, 2018 0 By Angelo Armandi

roma alfonso cuaronRoma, regia di Alfonso Cuarón, pellicola in concorso alla 75esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Probabilmente l’opera più intima del regista messicano: una narrazione che ripercorre nove mesi della vita di una famiglia di Città del Messico, quartiere Roma, durante gli anni Settanta.

La struttura del film è talmente intima, talmente radicale nel suo dispiegarsi in immagini, da lasciare intendere un’impellenza registica, una visceralità nella scrittura, una potente rievocazione emotiva nell’immagine: i tre cardini della macchina cinematografica portano la firma di Cuarón, e l’elemento filmico che si modella sotto la sua direzione è pregno di una autobiografia definitiva, struggente, dall’antico respiro felliniano.

Le vicende familiari si sviluppano con due diverse focalizzazioni: la gravidanza della cameriera/bambinaia e il fragile equilibrio borghese del quadretto familiare all’apparenza immacolato. La scelta dell’immagine in bianco e nero è oltremodo significativa: si assiste ad una narrazione che mescola il sogno alla rievocazione, realizzando una forma di realismo magico cinematografico, in cui la messa in scena, all’apparenza rigorosa ed asettica, si mescola inevitabilmente ad un elemento lirico che è fuso alla realtà stessa: la percezione sovrasta la visione; l’inesattezza del ricordo, falsificato dalle emozioni legate alla memoria, supera la testimonianza storica: c’è una sfolgorante emotività in ogni piano sequenza, ogni carrello metropolitano, ogni panorama bucolico dalla sconfinata profondità di campo. La sontuosità dell’opera coincide con la sontuosità della fotografia, pregna di una eleganza frutto di faticosa ricerca, del tentativo di immortalare su celluloide sequenze mnemoniche fanciullesche. Roma si presenta come un figlio a lungo atteso, talmente desiderato che ogni fotogramma spilla bramosia di autoaffermazione.

Viene rievocato l’assetto culturale di un’intera generazione messicana, con lo sfondo politico delle guerriglie di protesta degli anni Settanta, che tuttavia resta marginale, proprio come si immagina sia stato per il Cuarón bambino, laddove invece le dinamiche familiari hanno maggiore risalto, e la componente antropologica diviene la dominante di Roma.

Si racconta di forti figure femminili, dall’anziana nonna, alla madre, alla bambinaia: l’intera istituzione familiare si regge sulle donne, doppiamente potenti, in quanto non solo gestiscono la responsabilità della crescita della prole, ma lo fanno in una società di stampo profondamente maschilista. La tradizione che non ha ancora conosciuto l’innovazione del pensiero. Che l’istituzione familiare abbia ceduto parte del suo carico allo Stato è una dinamica sociale relativamente recente: nella precaria e sovversiva situazione politica messicana di quei decenni, la famiglia era la sola incaricata di produrre i cittadini del futuro. Il maschio, lo stereotipo del dominante, è completamente assente.

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La grandezza di Cuarón è di aver scisso la castrazione dell’uomo dall’estrazione culturale: tanto il maschio di borgata che ingravida la cameriera, quanto il marito borghese in carriera spiccano per la loro inettitudine, il rifiuto della responsabilità, il mancato esercizio del ruolo genitoriale. Ed è altrettanto evidente quanto la prole subisse il fascino della figura paterna e ne bramasse non solo la presenza, ma anche l’imitazione: la sequenza del parcheggio della lussuosa automobile del padre nell’angusto ingresso dell’abitazione, con ripetute manovre per evitare danni al veicolo, è talmente ricercata e registicamente complessa, da ritenere che il Cuarón adulto abbia voluto rievocare alla perfezione una precisa immagine del Cuarón bambino ancora stampata nella mente.

Nonostante la solitudine, queste donne lottano con dignità per non soccombere: la figura materna, o che si rifà ad essa, ha una potenza straordinaria, è il motore dell’opera e il motore del mondo. Sono lotte diverse: in una scena, in cui i figli stanno per annegare, la madre è lontana e a salvarli è la bambinaia, che non sa nuotare, tuttavia corre il rischio per amore dei piccoli. Le onde del mare sembrano sovrastarli, rischiano tutti l’annegamento, eppure sopravvivono alla voracità della natura, al fluire talvolta sadico degli eventi (ancora il realismo magico con la sua potente allegoria). La bambinaia è reale presenza materna. La vera madre, distaccata dai figli (come nella più tradizionale parabola borghese), è inetta al pari dell’uomo, impara col tempo a risvegliare l’istinto materno e trovare dentro di sé una forza e una dignità genitoriali altrimenti sopite.

Ultimo, ma non meno importante, è il piano sequenza del parto in ospedale, un’inquadratura fissa ed implacabile sull’atto materno per eccellenza: un inno al coraggio della donna, alla dignità della madre, alla straordinaria bellezza del cinema.

Angelo Armandi