Venezia75: Doubles Vies (Non-Fiction) e l’impossibilità della vita autentica

Venezia75: Doubles Vies (Non-Fiction) e l’impossibilità della vita autentica

September 3, 2018 0 By Angelo Armandi

non fiction doubles viesDoubles Vies, pellicola di Olivier Assayas in Concorso alla 75esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Doubles vies, ovvero doppie vite: la narrazione di due coppie che interagiscono e conducono vite parallele con reciproche implicazioni, nella forma di una commedia caustica che miscela la miseria degli uomini alla levità tipica del cinema francese, ovvero uno sguardo all’apparenza amorale sulla loro condotta.

L’opera è un mosaico di quadretti intellettualoidi, pervasi di verbosità, eclettismo e pigrizia, essendo gli stessi personaggi l’oggetto inconsapevole della loro reiterata analisi critica sulla società contemporanea. Partendo dalla dimensione digitale che ha rivoluzionato l’editoria, si passa per l’apparente democratizzazione dell’informazione sul web e l’anarchia della parola che domina i social networks, per giungere alla politica, alle istituzioni, alla struttura stessa su cui si fonda la liquidità del nostro tempo.

Liquidità intesa come movimento continuo, l’affannarsi del processo di visibilità, l’apparente superficialità del moto ondoso su cui si muove il processo della conoscenza, l’inconsistenza dei concetti che fuggono dalle mani come perle di mercurio (la stessa entità fantasmatica degli sms di Personal Shopper).

Doubles vies, se si tralasciano i piccoli intrecci come focolai diegetici nel grande calderone sociale, non ha una trama, è esso stesso contenitore umano e contenuto, ovvero la propulsione e la conseguenza della nuova concezione digitale della vita. Il titolo sembra suggerire, e il film conferma l’intuizione, l’impossibilità di avere una vita autentica. I personaggi di estrazione borghese hanno i mezzi culturali per stare al mondo con dignità, tuttavia il digitale ha contagiato ogni individuo come una grande infezione a colpi di byte (la controparte criminosa è sviscerata con impeccabile lucidità in Blackhat di Michael Mann). A conferma di questo, il titolo inglese dell’opera, Non-fiction, sempre col rimando all’editoria, è l’intento di lasciare in disparte la narrazione di finzione, e dedicarsi al cuore reale delle cose.

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E dunque questi corpi liquidi, e le evanescenti parole che da essi scaturiscono, sono inconsistenti, impalpabili quanto un archivio digitale, mutati oramai in quella patina di superficie che ha da sempre fatto parte degli individui, assieme alla sostanza profonda di cui si compone l’esperienza, e che ora diviene unica essenza degli uomini. La doppia vita dei piccoli uomini non è altro che la controparte esperienziale del conflitto tra apparenza e sostanza, laddove non si riesce più a discriminare cosa sia rimasto della sostanza, e quanto l’apparenza abbia mutato i loro cervelli.
Non si tratta di una critica al nostro modo di concepire la conoscenza e di fare esperienza del mondo: si tratta piuttosto di prendere atto che, come si vede in una scena del film, la polemica su un blog circa la vita privata di uno scrittore è più rilevante, più attrattiva, persino più redditizia di una critica al libro condotta da chi conosce il mestiere del critico e lo esercita avvizzito da decenni.

Sempre estrapolando dal film, si sorride agli sms piuttosto che prendere parte ad una conversazione e al tempo stesso si macina pedanteria sulla corretta terminologia di un discorso; poi si condannano comportamenti sessuali indecenti e al tempo stesso si conducono da anni relazioni extraconiugali: questa apparente contraddizione è il cuore profondo del nostro tempo, il riflesso dell’incertezza di un periodo di transizione, in cui gli eventi si spostano troppo velocemente per capire quale luogo dell’antropologia abiteremo, e quindi i vecchi valori, già in decadenza, si trascinano in un coacervo di nuove idee non pienamente afferrabili.

Come Olivier Assayas ha compreso, non ha senso criticare o denunciare questa idea di esistenza, perché la mutazione è divenuta parte di ogni uomo. Dimostrandosi un manipolatore dei generi, sfrutta la commedia per trascinarci nell’immagine di noi stessi proiettata sullo schermo, e di questa immagine adesso non si può che sorridere, e prepararsi al peggio.

Angelo Armandi