
Venezia75 – Monrovia, Indiana: Intervista a Frederick Wiseman
September 20, 2018Monrovia è una piccola città in Indiana, Stati Uniti. Tutta la viabilità stradale si realizza lungo quattro direzioni che s’incontrano al centro formando una croce. Gli edifici della scuola elementare, media, superiore sono vicinissimi gli uni agli altri. Poco distanti, due diamanti per giocare a baseball, un campo da football con attorno una pista per correre. Sempre lì nei paraggi sorge la biblioteca pubblica. Sport, istruzione, cultura. Percorrendo Chestnut Street si passa di fronte a un’agenzia immobiliare, una banca, un ufficio postale e una chiesa metodista. Altrove: un dentista, un veterinario, qualche negozio di alimentari, le pompe funebri, un ferramenta, una pizzeria, svariate altre chiese. Monrovia è circondata da grandi campi di granoturco e altrettante piccole aziende agricole e allevamenti. Tutt’attorno, per decine di chilometri, pressoché identici minuscoli comuni americani immersi nel vuoto più assoluto. Qui si nasce per morirci.
Appuntamento fisso quello di Frederick Wiseman alla Mostra del Cinema di Venezia dove da anni vengono presentati in anteprima mondiale i suoi documentari e dove qualche anno fa è stato anche attribuito al regista il Leone d’Oro alla carriera. Monrovia, Indiana fa parte di quelle cartoline americane che Wiseman sta realizzando da cinquant’anni a questa parte. Che sia New York o che sia una minuscola città periferica, che sia una struttura sanitaria o un’università, l’interesse viene sempre rivolto all’organizzazione umana, alle varie modalità con cui la società dà prova della sua esistenza e di saper funzionare più o meno bene.
In questo senso, ancora una volta Wiseman impartisce una grande lezione senza pedanteria perché Monrovia, Indiana non solo è uno dei suoi migliori lavori (la durata, centoquaranta minuti, non risulta estenuante per gli irrequieti e l’ampia collezione di esseri umani mostrati rende questo film uno dei meno monotematici del regista), ma anche uno dei più divertenti. La non-seriosità di Monrovia, Indiana è un valore aggiunto, come lo è il prezioso lavoro fatto sul colore (vedere per credere).
Fanno stranamente ridere le scene della loggia massonica (per rendere l’idea, una cosa non così lontana dal similare episodio narrativo in Un borghese piccolo piccolo di Monicelli), dell’insegnamento a scuola da cui emerge che le uniche personalità importanti della città sono sempre state solo legate allo sport, delle tribolazioni di Dio e le preghiere collettive per scongiurare l’Apocalisse, della vendita all’asta di trattori e altre macchine agricole con tanto di Amish pronti ad aggiudicarsi i pezzi migliori, del ritrovo tra anziani che si aggiornano su morti e matrimoni per non parlare anche della clientela all’interno di un negozio d’armi che sembra uscire direttamente dal Paleolitico.
L’intervista che segue è nata dall’occasione di parlare con Wiseman del suo Monrovia, Indiana e in generale della sua carriera, della transizione dalla pellicola al digitale, del cosa vuol dire essere un documentarista oggi, della sua America su cui ora si abbatte quel flagello chiamato Donald Trump su cui il regista non può esprimere che un giudizio negativo perché quell’uomo rappresenta davvero un pericolo per tutti. Neppure la religione può salvarci dai malati mentali al governo.
Com’è cambiato il tuo lavoro sul montaggio da quando sei passato al digitale rispetto a quando giravi e montavi in pellicola?
La differenza è minima. Ora che utilizzo una videocamera digitale giro poco più rispetto a quando usavo la pellicola. Se devo indicare una cifra, si tratta al massimo del 5% in più. Tutto qui. Per Monrovia, Indiana ho raccolto 150 ore di materiale e il prodotto finale dura due ore e venti minuti. Il montaggio in digitale non è qualcosa che prediligo, ma ora come ora non ci sono molte scelte. Ho montato film in pellicola per quarantacinque anni e ora che lavoro in digitale posso farlo più facilmente perché il materiale si può recuperare più in fretta. Sul piano della creatività non so se sia meglio così. Una volta dovevi fermarti, alzarti, andare a prendere la pellicola appesa su un muro e non era comunque una perdita di tempo perché in quel frangente pensavi a cosa fare. Adesso che c’è il digitale devo rallentare me stesso perché sennò finisco troppo in fretta. Devo ancora prendere io le decisioni su come montare le varie parti perché il computer non pensa per me.
La color correction in “Monrovia, Indiana” è straordinaria, la migliore che tu abbia mai avuto in un tuo film. Come avete lavorato per ottenere questi colori?
Oh, l’adoro. La color correction è davvero meravigliosa. Mi sono recato in laboratorio con il tecnico che se n’è occupato e l’ho assistito in ogni passaggio.
Fare questo mestiere non è qualcosa che si può imparare studiando, si tratta soprattutto di fare tesoro dell’esperienza accumulata. Girare film cosa ti ha insegnato di più per diventare un migliore regista?
Ho imparato a prendere delle scelte e a rischiare. Nel girare un documentario vengono sempre fuori delle possibilità inaspettate che bisogna sapere sfruttare e quando le noti devi essere abbastanza veloce per coglierle [Wiseman fa schioccare le dite, NdR]. In certi casi si esita e si perde magari l’inizio di una conversazione tra due o più persone che se non si riesce a filmare non dà lo stesso valore a quello che registri dopo. Bisogna essere pronti. È meglio rischiare di girare qualcosa che poi non viene montato piuttosto che perdere la possibilità di farlo. Per esempio, In Jackson Heights c’è una scena in cui un gruppo di donne sta lavando un marciapiede per rendere più pulito il quartiere. Io le stavo riprendendo perché semplicemente mi sembrava interessante far vedere dei cittadini americani che puliscono le strade perché credono che New York sia sporca, ma a un certo punto compare un’altra donna che chiede loro di fare una preghiera tutte insieme per un suo parente che sta morendo in ospedale. Di colpo, quella che era una scena divertente si è trasformata in qualcosa di molto triste. È stato un caso che io mi trovassi lì proprio in quel momento però ero preparato, stavo già girando, quindi non ho perso quel che è successo e nel mio film c’è.
In “Monrovia, Indiana” si possono vedere moltissime persone pregare. Tu credi che la religione ormai attecchisca di più in una zona rurale come quella invece che in una grande metropoli come Los Angeles o New York?
Quella di Monrovia è una comunità molto legata alla fede e in generale l’America è una nazione molto religiosa. L’ho scoperto quando ho iniziato a viaggiare molto in tutto il paese. Credo che, in generale, ovunque nel mondo ci siano più credenti che atei.
Prima hai definito divertente quella scena all’interno di “In Jackson Heights” dove improvvisamente quelle donne si abbracciano per pregare insieme, ma c’è una scena anche più divertente all’interno di “Monrovia, Indiana” quando mostri i membri della loggia massonica.
Effettivamente fa molto ridere, ma è una questione più delicata perché è importante che non sembri che io stia prendendo in giro quella gente durante la cerimonia d’iniziazione massonica. Il lato comico deve emergere dalla situazione in quanto tale non da come viene filmata perché sennò prenderei in giro pure me stesso e la mia professione. Tutta quella scena si spiega da sola, perlopiù è una ripresa fatta in campo largo. Inoltre, la comunità di Monrovia e quella di moltissime altre città è interessata a organizzazioni che diano aiuto alla popolazione. Quindi tutta la faccenda non è a una sola dimensione perché è innanzitutto un’attività che lega le persone tra di loro in una collettività che in altre situazioni si confronta per gestire questioni di vario tipo.
È un po’ il marchio di fabbrica di quasi tutti i tuoi lavori il mostrare un gruppo di persone che si riunisce per parlare e risolvere delle problematiche. Dai bibliotecari di “Ex Libris” ai docenti di “At Berkeley” oppure i commercianti di “In Jackson Heights” e i coreografi di “Crazy Horse”.
Sì, credo sia interessante portare avanti anche un tipo di cinema che mostri delle persone semplici che cercano di risolvere situazioni, fare progetti. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda Ex Libris perché si tratta di un’organizzazione complessa, su più livelli, il cui obiettivo principale è aiutare la gente, che sia sul piano dell’educazione elementare o su quello di una cultura più elevata. Lo scopo principale della New York Public Library è di rendere la conoscenza accessibile a tutti e lo staff fa di tutto perché ciò sia possibile per individui di età, estrazione, religione diversa. Quindi per me è importante fare film su questo genere d’istituzioni come è altrettanto importante mostrare luoghi come il Bridgewater State Hospital di Titicus Follies. Ci sono tanti registi convinti che i documentari debbano solo portare alla luce qualche verità nascosta, smascherare dei colpevoli, io invece voglio filmare ogni tipo di comportamento umano.
Durante la conferenza stampa dell’anno scorso, quando hai presentato “Ex Libris: New York Public Library” qui a Venezia, hai accennato al fatto che uno dei tuoi sogni nel cassetto è quello di fare un documentario sull’FBI, ma non ti è mai stato dato il permesso.
Oh sì, la stessa cosa vale anche per la Casa Bianca. Ci sono moltissimi luoghi che mi piacerebbe documentare, ma in alcuni casi, come questi, è veramente impossibile farlo, per di più ora che c’è Trump. Se avessi accesso alla Casa Bianca credo che il materiale girato sarebbe una via di mezzo tra un film horror e uno zombie movie con inserti da commedia. Stiamo parlando di un uomo che è uno psicopatico. L’American Psychiatric Association pubblica un dizionario dove sono elencati tutti i disturbi mentali e per la categoria “psicopatico” e “sociopatico” c’è un elenco di dieci principali caratteristiche e Trump le ha tutte.
Credi che Trump sarà rieletto Presidente degli Stati Uniti anche nel 2020?
Non pensavo avrebbe vinto neanche nel 2016! Io credo e spero di no, però il problema è che attualmente i democratici non hanno un candidato. Il New York Times e il Washington Post tengono una lista delle sue più grandi menzogne e siamo arrivati a oltre tremila. Per Obama ne avevano individuate solo otto.
Quando è stato presentato il programma della Mostra del Cinema di Venezia. “Monrovia, Indiana” è stato descritto come un film che avrebbe fatto capire perché Trump abbia preso così tanti voti nelle zone periferiche dell’America.
Circa il 65% dei cittadini di Monrovia ha votato per lui, ma mentre mi trovavo lì non mi è mai capitato di avere una conversazione sulla politica. Posso immaginare il perché abbiano dato il loro voto a Trump, ma il reale motivo non lo so. Ho avuto l’impressione di una comunità poco curiosa di ciò che succede altrove e interessata solo a quel che capita all’interno di Monrovia. Questo è ciò che più mi ha colpito e credo sia un aspetto rilevante nel mio film. A quella gente non interessa il mondo esterno.
Sembra quasi che la maggior parte delle persone a Monrovia nasca lì, cresca in quell’ambiente e …
… e ci muoia. Sicuramente sono pochi quelli che se ne vanno via. A Monrovia tutto è basato sulla famiglia, sulle piccole organizzazioni, sulla fede, sul lavoro e sui macchinari da usare nei campi per coltivare la terra. Moltissime persone di quel posto accettano le spiegazioni date dalla religione. Per loro è qualcosa di confortante e di piacevole. Il non porsi domande sull’universo li solleva da una grande ansia.
L’inizio di “Monrovia, Indiana” sembra quasi una piccola sinfonia della natura con tutte quelle nuvole, campi di granoturco, terreni arati e di sottofondo nient’altro che rumori ambientali e di trattori.
Ho scelto di aprire il mio film in quel modo per fornire un contesto a ciò che poi avrei raccontato: una piccola società basata sull’agricoltura con dei bellissimi paesaggi di campagna tutti attorno. È una vera e propria introduzione a quel mondo. In questo modo metto sullo stesso piano gli abitanti e i luoghi di Monrovia perché gli uni dipendono dagli altri.
Come sei stato accolto dalla popolazione di Monrovia?
Ho avuto un accesso completo a quella comunità. La gente è stata molto cordiale e non c’è stato nessuno che mi abbia detto che non voleva essere filmato. Il mio interesse principale è sempre stato quello di registrare il comportamento umano in tutti i suoi aspetti e nel fare questo cerco di non avere preconcetti su quel che mi troverò davanti. La mia guida a Monrovia è stato il becchino perché conosceva l’intera città dal momento che tutti potevano essere suoi potenziali clienti.
Ti ricordi qual è stato il primo film in assoluto che hai visto in un cinema?
Con precisione non ricordo, ma probabilmente è stato qualcosa con Laurel & Hardy [In Italia conosciuti da tutti come Stanlio e Ollio, NdR] oppure W. C. Fields. Io sono nato a Boston e mio padre, che era un avvocato, andava a lavorare anche il sabato mattina e io già a sei-sette anni prendevo la metropolitana da solo per incontrarlo. Faceva parte di un’associazione chiamata City Club nella cui sede, al pomeriggio, proiettavano film comici per bambini ed era un’attività che facevo con mio padre tutte le settimane, un appuntamento fisso. La vera scoperta furono i film dei fratelli Marx … Groucho è stato una delle mie più grandi fonti d’ispirazione.
(Intervista a Frederick Wiseman condotta da Simone Tarditi presso l’Hotel Excelsior del Lido in data 5 settembre 2018 durante la 75ma Mostra del Cinema di Venezia)

Simone Tarditi e Frederick Wiseman
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