RomaFF13: The Miseducation Of Cameron Post, complessità, contraddizioni e chimere

RomaFF13: The Miseducation Of Cameron Post, complessità, contraddizioni e chimere

October 27, 2018 0 By Alessia Ronge

The Miseducation Of Cameron Post, presentato alla 13ma Festa del Cinema di Roma, è l’ultimo film della regista di origini iraniane Desiree Akhavan. Basato sul best seller omonimo di Emily Dandforth il film rivela l’esistenza di queste realtà pseudo-educative tollerate dalle autorità statunitensi.

Siamo in Montana agli inizi degli anni Novanta e Cameron è una sedicenne che dopo essere stata scoperta, durante il ballo di fine anno, dal suo fidanzato insieme ad una sua coetanea viene spedita nel campo di “rieducazione” God’s Promise. Ospiti del centro sono tutti adolescenti attratti da persone dello stesso sesso che vengono “riprogrammati”, in quanto si parte dal presupposto che l’essere gay sia un peccato.

Il film già vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Sundance, aderente ai canoni indie, è affidato all’interpretazione di Chloë Grace Moretz che dà alla protagonista mille sfumature interpretative, facendoci immedesimare nello smarrimento identitario che il personaggio vive. Accanto a lei una Jennifer Ehle inquietante che non alza mai i toni, ma colpisce con il pugnale dell’ipocrisia.

The Miseducation Of Cameron Post pare però non riuscire ad andare oltre la tematica trattata. Quello che rimane sono le facce degli attori, certamente bravi e ben diretti, e qualche battuta decisamente riuscita come quella che descrive il personaggio Goodluck “come il David Bowie nativo americano”, o quando la protagonista nell’essere disgustata da se stessa, si sente rispondere dall’amica Lane che quella sensazione non è la lotta contro la propria sessualità, ma semplicemente “la condizione di essere adolescenti”.

The Miseducation of Cameron Post recensione

Questo è il punto alla base del centro “rieducativo” God’s Promise: negare lo status emotivo di essere adolescenti siano essi omosessuali, bisessuali o etero. La “cura” consiste proprio nel rifiutare la propria naturale identità, ma la manipolazione psicologica, il “lavaggio del cervello” e la violenza mentale che i leader del centro religioso applicano (o dovrebbero applicare) dov’è? Il film rimane totalmente ovattato giocato sull’ironia e sull’apparente serenità, complici anche una fotografia e un montaggio chiari e limpidi, che non si dimostrano però armi vincenti per trattare un argomento così delicato e degno d’attenzione.

Parlando chiaramente: il fatto che sotto la superficie si covino sofferenze e dolori è aspetto chiaro e visibile, ma la regista ne racconta ben pochi, preferendo usare un’ipocrita sottigliezza che non colpisce platealmente, ma che rimane nell’ombra. Il film grazie, a questo espediente, permette certo di mostrare le strategie adottate al fine di abusare emotivamente i ragazzi ospiti del centro, ma dall’altro lato rimane in superficie non assumendosi nessun azzardo. Tutto rimane in una certa passività, rischiando di contagiare anche gli stessi protagonisti etichettandoli a semplici vittime e non come individui pensanti e autonomi. Gli stessi momenti di ribellione emergono solo nel finale e con una modalità tutt’altro che sovvertitrice.

The Miseducation of Cameron Post pare molto distante dal quel cinema americano indipendente degli anni Settanta, preferendo affidare all’ovvietà o al classicissimo supporto musicale i veri atti di ribellione. Risultato? Il coinvolgimento e l’indignazione che il film, vorrebbe suscitare, paiano come lontane chimere.

Rimane però un fatto non trascurabile: la tematica trattata. Il film racconta delle cosiddette “terapie di conversione” che paiano lontane, ma che sono più vicine di quel che si pensi. La pretesa di “riparare” l’orientamento sessuale di alcune persone “riconvertendole” in eterosessuali è da molti stati ritenuta illegale, ma è ancora ampiamente diffusa in America e non solo. Basti pensare che solo recentemente, in Italia, l’Ordine degli psicologi si è schierato contro la visione omosessuale e bisessuale come malattie. La “terapia di conversione”, ad esempio, rimane ancora in vigore nel Regno Unito.

La frase che la protagonista dice alla direttrice del campo riassume quanto detto finora: non penso di essere omosessuale, non penso di essere un bel niente; frase che racchiude quel rifiuto per le definizioni in un’età quanto mai complessa, ma inserito in una struttura filmica traballante che non sembra in grado di sorreggere una realtà così vasta e articolata.

Alessia Ronge