
TFF36: La condizione primitiva di High Life
December 2, 2018“I’m holding up.”
La prima considerazione da fare contiene i toni della lungimiranza: High Life di Claire Denis rimarrà nel tempo. Oggi forse no, oggi forse solo in pochi lo apprezzeranno, ma in futuro riunirà appassionati da tutto il mondo il cui approccio sarà di (ri)scoperta. Non è fuori dal mondo realizzare che alcuni capisaldi del cinema di fantascienza non hanno goduto alla loro uscita nelle sale della giusta accoglienza oppure hanno impiegato mesi/anni per finire nel radar del pubblico. Il film principe di questo filone, quello che ha segnato la tappa più importante nonché quello con cui negli ultimi cinquant’anni ci si è dovuto inevitabilmente confrontare come pietra di paragone, è 2001: Odissea nello spazio. Lo insegnano nei manuali e lo si impara semplicemente guardando quel che c’è stato prima e quel che è venuto dopo.
High Life più che guardare solo a Kubrick sembra voler incanalarsi sulla scia lasciata dietro di sé dal Solaris di Tarkovskij, questo accade fin dall’incipit: l’essere umano immerso nella natura (in Claire Denis una serra, nella pellicola sovietica una campagna russa). Se a unire 2001, Solaris e High Life è anche il sovraccarico narrativo di misteri e fatti inspiegabile, tutto ciò fortifica un’idea pre-realizzativa: senza paragonare i tre film perché non avrebbe senso, ognuno di essi è la dimostrazione di come sia la suggestione creata dalla story-line a fare grande la fantascienza e non lo sperpero di effetti speciali.
Si dev’essere fatta grande economia nella fase produttiva di High Life: di tutto il cosmo si vede un buco nero concettualmente rubato all’Interstellar di Nolan o qualche stellina che luccica a grandi distanze. Ciononostante, è più che sufficiente a trasportare lo spettatore in quella dimensione che è, innanzitutto, quella di un gruppo di criminali terrestri diventati feccia spaziale. La navicella su cui i protagonisti viaggiano è una prigione altamente tecnologizzata con tanto di fuck-box (…) e struttura per allevare feti. Anche qui, come detto prima, si è andati di risparmio e design minimale: qualche computer con processore 8bit, qualche led color arcobaleno, fine.
Accantonando il discorso tecnico-stilistico, la seconda considerazione da fare è che -per quel che racconta- High Life sembra uscito fuori dalla penna di Margaret Atwood (The Handmaid’s Tale, Alias Grace). Il lungometraggio di Claire Denis amalgama insieme la ritualistica ossessione odierna legata alla fecondazione (sia essa venga accolta gioiosamente o auspicata, sia avvenga il contrario) e lo sguardo verso un futuro dove il neonato perfetto, laddove con perfezione s’intenda la capacità di sopravvivere, venga creato in laboratorio, utilizzando provette e proteggendo la creatura dalle radiazioni solari. Una sorta di star child cullato da una sciamana dello sperma con una figa di plastica.
Sopravvivenza. Violenza primordiale. Ritorno a condizione primitiva. L’asse su cui si sposta High Life è governato da queste tre coordinate. Non esiste, sulla faccia della terra e oltre, nulla di più naturale che la riproduzione. Il sesso, l’inseminazione, la gestazione. Nulla di più naturale, ma non più la cosa più semplice del mondo, evidentemente. Lo spettro della sterilità e del non portare a buon fine una gravidanza oscurano le prospettive del domani fino all’annientamento dell’individuo. E non è più solo questione di fantascienza o meno.
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