
TFF36: Intervista a Gyeol Kim, regista di Nothing or Everything
December 17, 2018Tra la ventina scarsa di film visionati durante la 36ma edizione del festival torinese tra corti, documentari, lunghi di ultima produzione, fatta eccezione per qualche incursione nella retrospettiva su Jean Eustache, Nothing or Everything non è stato sicuramente uno dei più memorabili (a differenza di Dovlatov o dell’High Life firmato da Claire Denis, per dire), ma allo stesso modo rimarrà nella ristretta cerchia degli “indimenticabili” anche se il ricordo tenderà ad assumere col tempo la fattezza di un sogno che sbiadisce dopo le prime ore dal risveglio, soprattutto considerato che -a differenza di molti altri titoli- non sarà più facilmente recuperabile.
Già avvicinato in un precedente articolo al 53 Wars di Ewa Bukowska, per via del disturbo legato alla protagonista, l’esordio di Gyeol Kim affronta l’orrore della distruzione di sé fino ad assumere la forma di un enigma con cui lo spettatore si può confrontare interrogandosi direttamente su quel che prova e il perché lo prova. A partire da questa considerazione, Nothing or Everything è ingiudicabile: ogni opinione andrebbe sospesa perché sarebbe sempre e solo parziale (invece, molti al TFF36 si sono sentiti legittimati a massacrare il film per via del suo non fornire risposte e procedere per accumulo di confuse e contraddittorie informazioni sull’esile trama).
È come se, attraverso il suo Nothing or Everything, Gyeol Kim cercasse di stabilire una connessione diretta con lo spettatore, quasi fossero più importanti l’esperienza stessa e le residue impressioni scaturite al termine della proiezione rispetto al film in quanto tale.
Se da un lato la filmmaker coreana nel lungometraggio confonde volutamente assieme vita e morte, dall’altro è piena e completa la volontà di annientare il divario tra quella che è un’opera di finzione e le sensazioni provate dal pubblico. Almeno nelle intenzioni. Tra catarsi e metafora, tra sofferenza e desiderio di fuggire dalla propria condizione, Nothing or Everything rimarrà racchiuso all’interno di segreti non svelabili. Ciononostante, la breve intervista avuta con Gyeol Kim è stata illuminante.
Mi ha colpito molto la prima scena di “Nothing or Everything”: un occhio che si contrae, la palpebra che si spalanca e si richiude, le ciglia mostrate in tutti i loro dettagli. È un’inquadratura fissa che quasi sembra astrarsi dal film stesso, una scelta semplice e potente. Come hai deciso che sarebbe stata la scena d’apertura?
Volevo qualcosa in grado di dare un’idea di che film fosse fin da subito. La storia in senso stretto non ha importanza, m’interessava maggiormente mostrare il flusso di coscienza e di emozioni della protagonista quindi ho scelto di concentrarmi sui cambiamenti emotivi di lei attraverso come muove l’occhio. Inoltre, con una sola inquadratura desideravo esprimere la difficile situazione in cui si trova questo personaggio. L’obiettivo è stato quello di descrivere ogni cosa con immagini e suoni piuttosto che con una vera e propria narrazione.
Quindi come hai lavorato alla fase di scrittura?
Di solito scrivo una sceneggiatura, ma per Nothing or Everything non l’ho fatto perché doveva essere qualcosa che mischiasse assieme piani temporali diversi (passato e presente) e che per l’appunto s’incentrasse solo sulle emozioni della protagonista. Tutto quello che è stato deciso sono state dieci linee guida su come sarebbe stato il film e ciò è stato sufficiente a convincere le attrici e tutta la crew. Le riprese sono state effettuate nell’arco di un mese in una montagna della provincia di Gangwon.
Qual è la tua formazione? Quali film ti hanno maggiormente ispirata?
Sono nata a Seoul, Corea del Sud. Ho preso una laurea alla Hanyang University e alla Korea Academy of Film Arts (KAFA). Mi piacciono molto Andrej Tarkovskij, Krzysztof Kieślowski, David Lynch. In passato ero interessata più ai registi che alle singole opere mentre ora è l’esatto contrario. Tendo a cambiare spesso la mia lista di film preferiti, ma in questo momento mi sento di dire Tropical Malady (Apichatpong Weerasethakul, 2004), Possession (Andrzej Zulawski, 1981), Sussurri e grida (Ingmar Bergman, 1973), La pianista (Michael Haneke, 2001).
Il titolo che hai scelto,“Nothing or Everything”, è emblematico. Come ci sei arrivata? Cosa si nasconde dietro questa decisione?
All’interno del film ho cercato di mostrare quali sono i sintomi del PTSD (disturbo da stress post-traumatico), che comporta problemi nella memoria, ansia esagerata, insensibilità e desiderio di evasione. Essendo un disturbo molto complesso, questo vuol dire che ci sono dei giorni in cui tutto sembra andare bene e altri in cui la sofferenza coinvolge ogni cosa. Da qui la scelta del titolo: niente o tutto.
Il suicidio è il tema cardine di tutto il film.
Ho dovuto fare esperienza della scomparsa di una persona a me cara. Da quel momento ho riflettuto molto sul tema della vita e su quello della morte. Sul suicidio posso dire che è qualcosa che lascia molte cicatrici sugli individui legati al defunto.
(Intervista alla regista coreana Gyeol Kim a cura di Simone Tarditi. Dicembre 2018.)

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