En Passion: l’apparizione del colore nelle immagini di Ingmar Bergman

En Passion: l’apparizione del colore nelle immagini di Ingmar Bergman

December 27, 2018 0 By Mariangela Martelli

1918-2018: un secolo è passato dalla nascita di Ingmar Bergman, molti contributi sono in corso quest’anno (da retrospettive a pubblicazioni) per far conoscere o riscoprire uno dei Maestri della storia del Cinema. La scelta di parlare del film Passione vuole essere un omaggio e un’analisi di alcune figure topiche della filmografia del regista: quest’opera segna uno spartiacque dai precedenti lavori bergmaniani perché si accomiata dal bianco e nero. Nonostante Bergman abbia già utilizzato il colore in A proposito di tutte queste signore, decide di abbandonare l’approccio manualistico per sperimentare (continuando il sodalizio con il direttore della fotografia Sven Nykvist) un nuovo tipo di lavoro cromatico, con l’intento di realizzare “un vero film a colori come non ne erano mai stati fatti”. Partendo dall’idea originaria di “realizzare un film in bianco e nero a colori”, possiamo leggere alcune scelte come l’impiego della pellicola Eastmacolor per nascondere il colore (dai titoli di testa, agli incubi della protagonista, passando per la scena degli scacchi dove non-colori e toni del grigio dominano la tavolozza).

Passione, uscito nel 1969, è considerato un “gemello” de La vergogna in quanto realizzati entrambi l’anno precedente e ambientati sull’Isola di Fårö  (dove all’epoca Bergman viveva con Liv Ullmann). È questo il luogo deputato e che procede un discorso già iniziato, infatti (come il regista ha detto nel libro Immagini, edito da Garzanti) “Il sogno di Passione comincia dove finisce la realtà di Vergogna”. Ma è stato proprio l’insuccesso de La vergogna, (nonostante il cineasta apprezzi la seconda parte sulle conseguenze della guerra) ad averlo spinto ad un utilizzo didascalico nel mostrare gli eventi e i personaggi in Passione: mettere in chiaro ciò che viene ri-prodotto permette allo spettatore di assumere un maggior atteggiamento critico in ciò che osserva. La volontà di Bergman si esprime attraverso il narratore onnisciente (nella versione originale la voice-over è dello stesso regista) presente nell’incipit (introducendo il protagonista Andreas) e nel corso del film.

Passione Bergman Recensione

La struttura segue una divisione in quattro parti (quanti sono i personaggi principali) spezzata dagli intermezzi in cui i quattro attori di Passione analizzano il ruolo interpretato: ma lo fanno esprimendo il loro punto di vista o quello di Bergman? Allo spettatore viene mostrato il ciak che da l’avvio alle interviste, sottolineando così l’artificio che ha davanti agli occhi, in un contesto meta-cinematografico.  I flashback sono evocati dalle parole (interviste e nel monologo di Anna) creando un raddoppiamento dell’architettura filmica che, come in uno specchio, diventa una delle maschere che i protagonisti indossano per celare le sfaccettature della propria anima. Nonostante la presenza costante di flashback e confessioni, una parte della storia rimane nascosta: l’impossibilità dello spettatore di conoscere la verità fino in fondo è la stessa vissuta dai protagonisti di Passione.

Le menzogne sono alla radice dei rapporti tra i personaggi ma si tratta di costruzioni incapaci di suturare delle interiorità spezzate: queste si riverseranno in superficie una volta a contatto con i propri spettri. La rabbia e la violenza esplodono sotto la luce satura dell’isola, in una sorta di Ora del lupo diurna, come se i fantasmi provenissero da un’oscurità fotografata al negativo. È Bergman stesso a mettersi a nudo nel documentario Images from the playground, in cui le riprese amatoriali sui set accompagnano i racconti più intimi ed intensi, legati al senso claustrofobico provato nelle estati svedesi piene di luce. Il mondo esterno e quello interno del regista si capovolgono e compenetrano allo stesso tempo, esprimendosi anche nelle scenografie di Passione: nelle stanze chiuse, illuminate in modo artificiale (da candele e lumi) come all’aperto in cui la scomparsa improvvisa del sole lascia degli aloni chiaro-scuri. Questa scia impalpabile di minacce turbano la quotidianità e si traducono in avvenimenti inspiegabili (le morti del bestiame) e fatti di cronaca, portati dall’esterno all’interno dai media radio-televisivi (come già accaduto in Persona e La vergogna): l’isolamento volontario dei protagonisti è costretto a misurarsi con le immagini e i suoni della guerra in Vietnam. Nonostante la criticata apoliticità del regista durante il periodo di contestazione (e che fu motivo delle sue dimissioni come insegnante dalla Scuola di Arte Drammatica) vi è la visione di un mondo esterno ostile, dominato da una cieca brutalità.

Il tempo è uno dei motivi-ossessioni che ritornano nei lavori del regista: le riprese di Passione furono completate in 45 giorni ma è lo stesso Bergman a ricordarne la gestazione come una delle più faticose della carriera. Inoltre, sulla scia dei movimenti del ’68, non mancarono problemi con la troupe, risolti nella scelta di tutti a rimanere, accettando i ritmi del Maestro. Nel film, ticchettio dell’orologio extra-diegetico scandisce i movimenti della macchina da presa, mentre la soggettiva di Andreas si sofferma su alcune parole dattiloscritte (della lettera scritta dal marito di Anna alla donna) che separate dal contenuto finiscono con l’assumere un significato assoluto. Infatti anche il nostro occhio è attratto dal frammento “atti di violenza fisica e psichica”, ripreso più volte.

Il senso della ripetizione si ripercuote anche sugli eventi e nomi (Andreas è il protagonista ma anche il marito di Anna) facendo intravedere la possibilità di ri-vivere un passato opprimente. Sostituzioni e doppi (esplicitati graficamente nella locandina originale) plasmano lo scontro interiore a cui ogni personaggio dovrà fare i conti con sé e gli altri. In Passione assistiamo anche a una doppia crisi di coppia: sono Scene da un matrimonio passato e presente che ri-proponendosi, trascinano Anna (Liv Ullmann) in un senso di colpa (anche fisicamente dall’andatura claudicante dell’incipit) verso un marito assente ed Eva (Bibi Andersson) nella noia dell’unione con il marito architetto (Erland Josephson). Ricompaiono qui quattro degli attori-feticcio di Bergman che avranno occasione di ritrovarsi a cena a casa di Eva e del marito, dove anche la religione farà parte dei loro discorsi: ma a differenza di altri film in cui assume un ruolo centrale (come ne Il settimo sigillo e soprattutto la Trilogia del silenzio di Dio) in Passione verrà solamente accennata. Andreas e Anna, accomunati dall’espiazione e dall’auto-esilio sull’isola di Fårö, si trovano in un microcosmo di silenzio e solitudine: l’atmosfera respirata è densa di abbandono, passività e inadeguatezza nel prendersi cura di sé e degli altri. La comunità, composta da pochi isolani, vede in coloro che provengono dalla terraferma, una rottura dell’equilibrio pre-esistente.

Colpisce l’episodio dell’uomo accusato ingiustamente di aver ucciso degli animali, come se i suoi problemi psichici passati (sappiamo del ricovero in manicomio) uniti a un presente da eremita fossero motivo sufficiente per farne il capro espiatorio. La fragilità psichica è uno dei fili dipanati in Passione e che affligge ogni personaggio tranne il marito di Eva, che in un mulino ha collocato il proprio archivio contenente fotografie di soggetti affetti da disturbi mentali: il ruolo super-partes dell’uomo lo spinge a identificare anche Andreas, facendolo diventare l’oggetto dei suoi scatti. Come allude il titolo in inglese della pellicola (The passion of Anna) la vicenda si focalizza sulla donna, schiacciata dall’annientamento della sua vita passata: il ricordo di un amore appassionato diventa dolore per la mancanza di un rapporto attuale fatto di simbiosi totale e onestà ma paradossalmente Anna cercherà di ri-crearlo con il nuovo Andreas. I colori in Passione assumono una funzione drammaturgica premonitrice: dal cappello rosso indossato dall’attrice Liv Ullmann durante l’intervista (che allude al fazzoletto rosso della sequenza finale) al bianco della neve (analogo al vuoto dell’immagine accecata di luce). Inoltre è l’insorgenza a dominare la scena d’amore tra Eva e Andreas, facendo riempire di rosso tutto ciò che vediamo. La capacità del colore di creare un mondo a sè e di farsi punctum dallo schermo allo spettatore, sarà ripreso nel successivo Sussurri e grida (sebbene il rosso sarà elemento di raccordo tra le scene). Il crepuscolo di Passione invade tutto ciò la stanza contiene, pre-annunciando l’incendio dell’ultima sequenza (i parallelismi formali con Sacrificio di Andrej Tarkovskij sono del tutto leciti, in quanto la fotografia è dello stesso Sven Nykvist).

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Le due protagoniste, sebbene abbiano un carattere e un approccio differente alle cose, sono accumunate da una sfasatura interna: Eva confessa la propria instabilità emotiva all’amante, il senso di inutilità e la  mancanza di identità è sintetizzata visivamente nel profilo della donna, in contro-luce. Come Andreas vive il proprio dramma passivamente come un veleno che li corrode dall’interno per lasciarne l’involucro; Anna ha maggiore consapevolezza ed esprime la voglia di ri-iniziare attraverso uno sguardo fatto di possibilità e fiducia ma è nel monologo che tenta, solo parzialmente, di liberarsi dagli incubi: ciò che omette emergerà a livello inconscio nella sequenza in bianco e nero del sogno. L’ambiguità aleggia nel film e si manifesta in una struttura narrativa in cui realtà e attività onirica si contaminano con frammenti temporali. Le bugie dei protagonisti, unite alle parziali omissioni e confessioni mancate, negano il desiderio di Anna di ri-vivere nella verità: sarà questa la causa della crisi con Andreas, che li farà imbattere faccia a faccia con il passato.

La scena della confessione fatta di primi piani in campo/controcampo, intaglia i loro volti sullo sfondo nero, decontestualizzandoli in un universo immobile a cui seguirà la discesa di Andreas che spogliato e umiliato dalle parole di Anna, scoppia in un atto di violenza contro la donna (in un gesto che ricorda lo Shining di Stanley Kubrick). La pioggia che segue l’incendio non ha nulla di catartico: la corsa in auto (allusione alla precedente tragedia di Anna) fa precipitare gli eventi in velocità: lui si chiude nel ritorno alla solitudine, respingendo il perdono da parte di lei. L’aridità dei sentimenti è quella del paesaggio ultimo che circonda il protagonista, in un campo lungo che si restringe in una lenta zoomata. Il tentativo di focalizzare una meta fallisce: Andreas continua a spostarsi in avanti e indietro, inutilmente. È il ticchettio a-sincrono, in una sgranatura corrosa dal bagliore, a svelare il vuoto dietro l’immagine.

“Continuo a pensare che esista una cattiveria che non si può spiegare, una virulenta, spaventevole malvagità, di cui solo l’uomo tra gli animali è capace. Una malvagità irrazionale, slegata da qualsiasi legge. Cosmica. Senza motivo. Non c’è nulla di cui gli uomini abbiano tanta paura quanto dell’incomprensibile e inspiegabile malvagità”. (Ingmar Bergman, in Immagini ed. Garzanti).

Mariangela Martelli