
La conversazione di F. F. Coppola, paranoia e dittatura dei dati
February 6, 2019La Conversazione, di Francis Ford Coppola, realizzato grazie all’enorme successo commerciale de Il Padrino, è la sintesi di uno sguardo cinico sul mondo che non riesce ad aggrapparsi ad una prospettiva di speranza. L’America di Nixon, del Vietnam, della cortina di ferro, del Watergate; l’America della contestazione, del ribollire della New Hollywood (di cui La Conversazione rappresenta un caposaldo irrinunciabile). Francis Ford Coppola interiorizza nelle carni e nel sangue ogni segmento del suo universo e lo riversa in una pellicola talmente intima da rappresentare una vetta della sua cinematografia.
Come tutte le vette, all’apparenza La Conversazione sembra un film piccolo, discreto, che si muove tra i titoli più conosciuti quasi vergognandosi della propria nudità, della propria vulnerabilità. In apertura, San Francisco inquadrata dall’alto in ripresa aerea, una Union Square in cui ogni cittadino è alle prese con l’ordinarietà della propria esistenza. La musica di David Shire viene interrotta da interferenze che scompaginano le note in una struttura aliena: il montaggio di Murch costruisce un artefatto che scompagina la realtà, rendendola irrimediabilmente ambigua.
La natura del film è in questa prima sequenza, è la perfetta sintesi cinematografica di un mondo in autofagia. La ripresa aerea controlla, tenta di manipolare, è ossessionata dal meccanismo della scopofilia hitchockiana (un cardine del cinema moderno), muovendosi da una prospettiva privilegiata per il timore di essere a propria volta inseguita, controllata, spiata. Il protagonista del film è uno dei personaggi iconici del cinema: Harry Caul (Gene Hackman), un Travis Bickle delle intercettazioni telefoniche, alienato quanto il taxista scorsesiano e altrettanto incapace di guardare la realtà senza quella sovrabbondanza di impulsi e derivazioni sensoriali che compongono l’architettura della paranoia. Harry Caul è alle prese con una intercettazione telefonica per un direttore d’azienda, e nonostante si imponga di non essere coinvolto dal contenuto della conversazione registrata, alcuni elementi della stessa lo inducono ad indagare, esponendosi ad un pericolo di cui non comprende davvero la portata, finché egli stesso, spintosi troppo oltre, viene a conoscenza di informazioni sensibili per le quali viene a sua volta controllato.
Harry Caul è un individuo di straordinaria discrezione: nessuno conosce a fondo la sua identità, non possiede effetti personali, suona il sax soltanto sullo sfondo di un LP jazz, è castrato dalla ideologia religiosa. Taciturno, apatico, senza la tridimensionalità dello spessore di coscienza. San Francisco, attorno a lui (la metropoli, come in altri film degli anni Settanta, è il fondale della pellicola che si porta in primo piano fino ad essere intessuta con l’intreccio e le carni dei personaggi), è silenziosa, fatta di cantieri abbandonati e gente che cammina a testa bassa, una dimensione suburbana carica di tensione e presagi funesti. Tutti i personaggi che gravitano attorno ad Harry Caul sono ambigui e sospettosi al tempo stesso, dalla identità inafferrabile e incapaci di cogliere un senso nella realtà circostante: alienazione ed impotenza, inettitudine e aggressività.
Quell’America ha legittimato la perdita della privacy e avallato la curiosità patologica: nella gran parte delle inquadrature sono disseminate telecamere, binocoli, auricolari, microfoni: l’ossessione morbosa per la conoscenza ha sverginato le identità di qualsiasi individuo, che viene al tempo stesso analizzato e manipolato. Si crea una realtà sotterranea di trasferimento delle informazioni che, qualche decennio prima di Blackhat e quasi in contemporanea ad Orwell, realizzava visivamente e sonoramente l’incubo di una dittatura che, inizialmente confinata ai corpi, è divenuta un intreccio poderoso di dati virtuali, scandagliati da algoritmi potentissimi che gestiscono flussi di dati di proporzioni immense (i Big Data, per l’appunto).
Nel processo di conoscenza di Harry Caul, la paranoia metropolitana avanza fino a disturbare la cognizione della realtà, sommata alla già intrinseca impossibilità di discernere la vittima dal carnefice, portando ad allucinazioni e stati d’angoscia di memoria polanskiana. Il montaggio moltiplica le realtà, i mondi, ugualmente reali ed ugualmente fittizi, portando al logoramento, alla frammentazione della mente di cui si sarebbe impadronito David Fincher nella impossibilità di conoscere la verità.
Ne La Conversazione, come già preannuncia il titolo, l’incubo è soprattutto sonoro, l’allucinazione è affidata per la gran parte all’udito, la paranoia si costruisce sul montaggio del suono. Come nel miglior Tarantino, è l’immagine che si modula sul suono: è quindi nel tentativo di Harry Caul di pulire le interferenze per comprendere il nesso della conversazione intercettata che bisogna individuare il cinismo di una generazione, che ha smarrito la fiducia nelle istituzioni e che, più in generale, non intravede alcun barlume di speranza nel futuro. Così come la speranza, apoteosi dell’usura mentale, giaceva al fondo del vaso di Pandora, così la sua perdita consente la rassegnazione, la cupezza, il nichilismo.
Harry Caul, seduto per terra mentre suona il sax, dopo aver disintegrato l’appartamento alla ricerca di una ipotetica cimice inserita dagli inseguitori, è il ritratto indispensabile di un’epoca che, traghettandoci dalla carne al codice binario, si è impossessata anche di noi, nella forma evanescente di un byte.
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