L’arte della violenza in The House That Jack Built

L’arte della violenza in The House That Jack Built

February 7, 2019 0 By Gabriele Barducci

Quelli che Jack (Matt Dillon straordinariamente in forma) considera come incidenti, in realtà non sono altro che veri e propri omicidi. Per quanto goffi, ottimizzabili e maldestri, tutti hanno margini di miglioramento e hanno una valore artistico simile al capolavoro unanime mondiale.
In realtà Jack è lo stesso Von Trier, facile quindi sostituire questi “incidenti” con i film realizzati dallo stesso regista.
Una voce fuori campo comunica con Jack. Lui racconta la sua vita e la voce ascolta. Ogni tanto pone qualche quesito morale al suo interlocutore, lo critica, critica proprio la sua arte – che sia una metafora della critica giornalistica? – e solo nel finale potremmo vedere viso e corpo di questa voce.

In tutto questo, The House That Jack Built è un film che sembra fare un enorme buco nell’acqua, pur risultando pieno di simboli, tenacia tecnica e cavalli di battaglia del cinema di Von Trier.
Molto più autoreferenziale del previsto, il regista copia la struttura e dicotomia tra macabro e artistico già narrata in Nymphomaniac e la plasma attorno a un serial killer schizzato, freddo e glaciale, con continue isterie di massa o comportamenti ossessivi – la ricerca di un’ipotetica goccia di sangue o errore nel suo uccidere e soffocare la donna dentro casa ha un retrogusto più comico che tragico.
Forse è proprio questo il problema di un film sicuramente interessante, godibile e oggetto di studio da una parte dei suoi più stretti fan, ma mai come in questa volta, il citazionismo biografico del regista diviene un’arma a doppio taglio, restituendo un ritmo altalenante al film, quasi 150 minuti dove Von Trier sembra girare attorno a una boa che ha già attraversato più volte. Ci mette il disgusto, le scene moralmente disgustose, lui che porta la famiglia a fare un picnic per poi dargli la caccia, uccidere moglie e figli, smembrando testa e arti dei piccoli, solo per un appagamento personale, che all’atto dell’omicidio accompagna poi la costruzione di qualcosa. I corpi senza vita per Jack continuano a raccontare una storia, hanno una vita secondaria nelle goffe foto che scatta.

the house that jack built

Sì, un uomo dietro una camera che sistema corpi senza vita su un set fotografico. Abbiamo bisogno di altri indizi per giustificare l’atto autoreferenziale?
Ciò che potrebbe essere qualcosa di davvero concreto e vincente, si rivela invece la parte più debole, facendo scendere il film in un girone Dantesco inedito, una follia visiva piena di simboli, ma così fredda e distaccata che sembra una pellicola dedicata solo al suo fruitore massimo (Von Trier e fan), lasciando a bocca asciutta tutto il resto del pubblico.

Nymphomaniac pur nel suo cut finale corposo – quasi 6 ore di film – aveva una storia da raccontare, un percorso anch’esso smosso dalla macabra ricerca dell’arte e della bellezza e noi spettatori gli abbiamo lasciato il tempo di mostrarci l’opera per poi applaudirla, ma con The House That Jack Built la stessa formula non funziona più, proponendo un film stilisticamente interessante, ma chiuso in questa dimensione autoreferenziale che lo limita in tanti, troppi punti.

Che poi, tutta la fase finale è forse la parte migliore del film, ma è così slegata da tutto, che alla fine non si riesce a non ricondurre nuovamente a una biografia dell’artista maledetto che porta il nome di Lars Von Trier.

Gabriele Barducci
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