
Ida: trascendenza in bianco e nero nella Polonia del dopoguerra
February 18, 2019Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un revival del cinema in bianco e nero: sono diversi i registi (non solo alle prime armi e/o provenienti da scene “indie”) che danno forma alle loro storie utilizzando una fotografia priva di colori. Tra loro c’è il polacco Pawel Pawlikowski, il cui ultimo lavoro Cold War del 2018 procede nella direzione inaugurata con la pellicola precedente: Ida, del 2013 (premiato con l’Oscar come miglior film straniero). Il titolo focalizza la nostra attenzione sulla protagonista, (il cui vero nome è Anna, interpretata dall’esordiente Agata Trzebuchowska) una giovane novizia cresciuta in orfanotrofio/convento in procinto di per prendere i voti. F
in dalle prime inquadrature entriamo nel suo microcosmo fatto di rituali silenziosi, momenti di preghiera e condivisione di pasti ma la sua preparazione spirituale viene interrotta quando la madre superiora le propone di conoscere la zia Wanda (Agata Kulesza, presente anche in Cold War) prima di intraprendere il nuovo percorso di vita. L’equilibrio della giovane Anna-Ida inizia a sfilacciarsi già prima dell’incontro con la sua unica parente (che in tutto questo tempo non è mai andata a trovarla/prenderla) e coincide con l’allontanamento dal “luogo di origine” (il convento). Il viaggio intrapreso la conduce ad uno stato attivo, fatto di incontri e conoscenza della storia delle proprie origini.
Il regista francese Robert Bresson dichiarò in un’intervista: “Il soggetto di un film è solo un pretesto. È la forma, molto più che il contenuto, a colpire lo spettatore e farlo elevare”. Anche in Pawlikowski è l’estetica dell’immagine in bianco e nero a risaltare agli occhi dello spettatore, diventando una superficie capace di fare discorso, in modo universale (al pari della musica). Se scaviamo più in profondità, in Ida troviamo un’idea di trascendenza, non intesa allo stesso modo di un Bresson, Dreyer, Ozu o Bergman (per citare i classici) che usano l’estetica della superficie per comunicare una certa idea di religiosità/fede dei protagonisti: qui Pawlikowski finalizza la trascendenza alla conoscenza di sé e delle proprie radici (per Anna-Ida) ma anche come un antidoto per esorcizzare i demoni ed espiare i propri sensi di colpa (per la zia).
La scelta della protagonista di diventare monaca sarà messa a dura prova dalle esperienze di vita reale: il percorso di formazione di Ida le darà consapevolezza riguardo il proprio passato (attraverso le foto di famiglia), origini (ebraiche) e verità (con la confessione del “presunto” assassino della famiglia). L’inevitabile rivalutazione della propria identità si con-fonde con la storia personale e con la Storia polacca del secondo dopoguerra.
Zia Wanda è una donna libera, anti-convenzionale, senza filtri che ricopre una posizione di potere (in quanto giudice). Nel dopoguerra era stata procuratore pubblico ma il soprannome “Wanda la sanguinaria” (datole per aver condannato a morte i “nemici del popolo”) non le da motivo di vanto. Wanda e Anna sono una lo specchio dell’altra e al tempo stesso portatrici di una dualità interiore: la “strana coppia” si è ritrovata ad intraprendere un viaggio on the road necessario per far luce sul passato in comune. Il percorso a tappe diventa quindi una sorta di inchiesta per identificare l’assassino della famiglia. Nonostante il bianco e nero possa dare l’impressione di qualcosa di freddo e distaccato, ci sono alcuni momenti capaci di restituirci l’idea del colore/calore: come quando la luce della vetrata nella stalla (fatta dalla madre di Anna, Rouge) filtra nell’immagine.
Inoltre, grazie alla musica intra-diegetica (giradischi, radio in auto, feste) riusciamo ad entrare maggiormente nell’intimità dei personaggi: l’atmosfera popolare che si respira nel locale dove suonano dal vivo, si ricollega a Cold War (non solamente per un rimando al brano 24mila baci), ma diventa il sottofondo alla storia sentimentale tra Anna-Ida e il musicista jazz. Il doppio intreccio del film inizia quando la zia decide di dare un passaggio a un uomo che scopriremo presto essere un sassofonista (interpretato da Dawid Ogrodnik, 11 Minutes di Jerzy Skolimowski). Dopo l’iniziale repulsione di Anna-Ida alla vita “mondana” (che la porta a scontrarsi più volte con la zia) è la curiosità della ragazza a spingerla al dialogo con il musicista sul balcone, dove incorniciati dalla geometria degli spazi, danno le spalle al vetro opaco del salone.
È con delicatezza che Anna inizia a prendere consapevolezza della propria femminilità, a togliersi il velo e sciogliersi i capelli per vedere “cosa si prova”. Ritornata al convento guarderà le sue compagne con gli occhi di chi ha visto com’è fuori, capovolgendo così la soggettiva iniziale di quando il suo sguardo sul mondo si rifletteva in trasparenza sul finestrino del tram. L’ultimo passaggio verso la propria identità avviene al finale, nell’appartamento vuoto: non riuscendo a dormire, Anna prova ad essere (come) la zia, indossandone gli abiti e imitandone le azioni. Anna diventa vertigine (avvolta su se stessa nella tenda) e collocandosi per la prima volta fuori dal proprio centro diventa un’eccentrica come la zia.
In Ida, la superficie in bianco e nero della fotografia si unisce in profondità al senso del film e attraverso i sentimenti contrastanti dei personaggi, ne contamina la visione. Anna mette insieme i pezzi di sé, cercando di dare un ordine alla nuova vita: dal ballo a piedi nudi in cui è sospesa tra Eros e Thanatos, al primo piano à plongée sul letto in cui vuol sapere cosa succederà poi. Non più divisa tra l’educazione cattolica e il desiderio di emancipazione, è nel momento in bilico tra passato e futuro che decide di essere libera: la lunga carrellata all’indietro (in cui cammina verso di noi) è uno dei momenti più alti del cinema degli ultimi anni.
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