
Green Book è il buddy movie dell’anno
February 21, 2019Green Book è un film estremamente ambiguo. Parte in un modo, presentando un parco di attori e relativi personaggi che sembrerebbero presi dal perfetto manuale per costruire e narrare un film che parli di razzismo e rivalsa sociale: USA anni ’60, un italoamericano razzista per motivi di lavoro si ritrova a fare da autista e bodyguard a un abile pianista nero, in vista di un’importante ciclo di concerti nel sud del paese, la parte più razzista. In viaggio con loro il Green Book, guida per chiunque dalla pelle nera che volesse addentrarsi in quella parte del paese che segnalava tutti i posti dove i neri erano accettati e dove no.
Un po’ film intimo, un po’ buddy movie come ha voluto sottolineare Spielberg, Green Book è tutto questo e tutto il contrario. Quando arriva il momento in cui il film potrebbe gettare la maschera e proporre la classica visione e critica sociale rivolta verso un periodo buio, dove i diritti civili venivano calpestati senza perdono, il film evolve, superano quegli ostali e/o cliché che uno spettatore datato è pronto ad aspettarsi.
Cominciamo con loro due, i protagonisti: mai come in questa occasione Green Book è un film fatti di personaggi, costruito sul loro continuo cambiarsi di ruolo. Don Shirlery (il nero) è il meno nero in tutto il mondo, forse una di quelle pochissime persone al mondo in quel periodo ad avere un incredibile potere e rispetto. Veste bene, mangia sano e ha una grossa attenzione per la sua igiene. Quando scambierà più volte lo sguardo con altre persone con lo stesso colore della sua pelle vedrà la differenza e la sua situazione di orfano sociale dato che è un nero, ma non sa nulla del disagio dei neri negli anni ’60. E’ rispettato dai bianchi, ma non può sedere a tavola con loro o usare i loro stessi bagni. Di contro, Tony Vallelonga è il bianco più nero tra tutti i bianchi d’America. Peggio se parliamo di un italoamericano, e quindi facilmente dipinto nel film come il classico stereotipo di piccolo furfante che cerca di rigare dritto, mangia spaghetti e polpette al sugo e classico uomo del borgo.
Qui vince e convince Green Book, nel cercare e scavare un classicismo senza fondo, qualcosa che si creava nel cinema di Hollywood anni ’50, raccontare una storia, mettere a confronto due o più persone che utilizzano il viaggio on the road per conoscerci e piacersi, non cambiarsi più di tanto – sarebbe stato fin troppo falso, romanzato e prevedibile – ma percepire la vicina rivoluzione dei diritti civili. La stessa raffinatezza narrativa avviene anche nel puntellare l’omosessualità di Don, che mette un carico pesante sulla storia narrata, presentando un nero gay in una zona del paese dove potrebbero pestarlo o ucciderlo senza batter ciglio e tutti questi piccoli cavilli vengono risolti grazie all’amicizia tra i due, fatta non di pacche sulla spalla, ma una profonda conoscenza del proprio essere e di chi abbiano accanto. Solo così le persone riescono a evolvere ed è questo il grande dipinto che il regista Peter Farrelly dipinge con sapienza, saltando con grande maestria ogni ostacolo e confezionare un film classico, che si fa ben piacere e amare da tutti, qualcosa che mancava da tempo nel panorama cinematografico odierno.
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