
Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità: Julian Schnabel ritrae il suo Vincent
February 26, 2019Julian Schnabel torna sul grande schermo con Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità, focalizzandosi sull’ultimo periodo di vita e pittura di Vincent Van Gogh. Il regista osserva e ritrae la solitudine e l’emarginazione dell’artista olandese, trasferitosi (su consiglio di Gauguin) dal grigiore della capitale parigina alla campagna di Arles, per lasciarsi ispirare da una nuova luce. La piccola realtà provinciale non esita a etichettarlo come uno straniero, inoltre le critiche alle sue opere, giudicate come prive di buon gusto e “disturbanti” gli rendono impossibile l’integrazione nella comunità. Il protagonista auspica una condivisione esistenzial-artistica con altri pittori: l’avvicinamento e la breve amicizia con Paul Gauguin gli faranno provare quel senso di appartenenza a lungo cercato.
Il nuovo modo di dipingere, comune ad entrambi, viene però elaborato in modo personale e il differente approccio alla realtà li porterà a intraprendere soluzioni diverse fin da subito: dalla fuga in Madagascar di Gauguin (per ricercare una totale libertà d’espressione) al trasferimento in campagna di Vincent, in cui le lunghe passeggiate e la pittura en plein air sembrano offrirgli una tregua dai propri demoni. Il senso dell’instabilità si concretizza tramite l’utilizzo della camera a mano e della soggettiva con cui vediamo il mondo di Vincent attraverso il suo sguardo: la sfasatura con l’ambiente circostante, a cui è costantemente sottoposto, è presente nelle numerose immagini sfuocate dalla palette di tinte sature. Inoltre fratture insanabili precipitano nella scissione audio-visiva attraverso la quale sentiamo la ripetizione di intere frasi riecheggiare intorno (e dentro) Vincent: nel dialogo finale con Theo (oltre alle voci) vi è la sovrimpressione in trasparenza dei volti dei due fratelli.
Il contrasto delle scene in interni/esterni si gioca sulle polarità “elementare” buio/luce: una chiave di lettura all’apparenza molto semplice ma efficace per configurare il senso claustrofobico delle stanze e cafè (rischiarati artificialmente da candele e lampade a petrolio) a cui si affiancano gli esterni pieni di luce. È nella bellezza della natura e nel rapporto panteistico (che Van Gogh sente appartenergli) a rifugiarsi e trovare un senso di benessere. La scena del viraggio in bianco e nero, mentre sta dipingendo en plein air, è emblematica in quanto visualizza la dualità del pittore: tanto vulnerabile e tormentato quanto consapevole dell’eternità della propria arte. Accetta così la convivenza con la follia, necessaria a fargli cogliere l’unione delle proprie emozioni a contatto con il paesaggio circostante. Nella scena in cui vediamo Vincent ritrarre l’amico Dottor Gachet, gli dirà spontaneamente di dipingere per smettere di pensare e per sentirsi parte di ciò che è dentro/fuori di sé.
L’arte diventa un tutt’uno con la vita grazie alla volontà di Vincent di dipingere la luce del sole. L’immagine del cimitero di girasoli neri in una terra arida viene presto scansata dal verde e oro di alberi e campi di grano, i vari momenti della giornata sono resi da una fotografia (di Benoît Delhomme) vivida e/o sfumata (accompagnata dalla musica-off di un pianoforte) mentre i dettagli delle mani e del volto del protagonista si confondono in controluce e nei riverberi del sole. Il pennello improvvisato con una canna è lo strumento che meglio evidenza l’urgenza di Vincent di cogliere ciò che ha davanti, permettendogli di riempie l’album di schizzi con rapidità: il suo istinto è improntato ad afferrare l’essenza del mondo, in cui trova il senso dell’esistenza.
Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità, presentato allo scorso Festival Internazionale del Cinema di Venezia, è stato premiato con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile: l’attore Willem Dafoe è il vincitore morale per l’Oscar come miglior attore. Altri grandi, prima di lui, avevano vestito i panni di Van Gogh: ricordiamo Kirk Douglas (Brama di vivere, 1956 di Minnelli e Cukor) e Tim Roth (Vincent & Theo, 1990 di Altman). Dafoe interpreta un Van Gogh sempre calmo all’apparenza ma capace di reagire in modo impulsivo quando sente minacciati sé e la propria arte: la frustrazione e rabbia trovano sfogo negli episodi di scontro con una scolaresca e una pastorella (di cui ne intuiamo la violenza non mostrata). Vincent si sente protetto e al sicuro solamente quando è insieme al fratello minore Theo, che se ne prende cura (non solo finanziariamente) ed è il solo a credere, con sincerità, nella sua arte. Gli impegni e la distanza tuttavia gli impediscono di essere sempre presente, si accorda quindi con Gauguin, sperando che l’amicizia con il pittore riesca a placare le visioni e la solitudine del fratello.
Oltre a Theo, sono pochissime le persone con cui il protagonista riesce a rapportarsi in un dialogo “alla pari”: con Madame Ginoux (una grande Emmanuelle Seigner, moglie di Roman Polanski) che gli affitta la famosa “stanza gialla”, il Dottor Gachet e Paul Gauguin. Il gesto brutale del taglio dell’orecchio segna la fine della breve condivisione artistica e di vita che Van Gogh credeva possibile con Gauguin. Le differenze di vedute (delineate fin dall’incipit) si sviluppano durante una passeggiata in cui discutono sulla natura e l’arte: al rivoluzionario Paul, che vuole distanziarsi dalla tradizione impressionistica, si contrappone Vincent che riconosce e continua ad ammirare i grandi maestri del passato (in una sequenza visita il Louvre). Il colore liberato a cui è arrivato Vincent, plasma una pittura densa e materica, ma fornisce a Paul il motivo per criticare le opere dell’amico “rivale” (e cercare di dissimulare il suo sentirsi in competizione). La tensione tra i due, avvertita nella scena del “doppio” ritratto a Madame Ginoux, sfocia in un punto di non ritorno durante lo scontro verbale in una chiesa abbandonata: Paul gli prospetta l’impossibilità della loro amicizia per incompatibilità di carattere e gli comunica il suo definitivo ritorno a Parigi. Il senso dell’abbandono diventa insostenibile per Vincent e nelle successive immagini oscurate sentiamo i suoi pensieri in voice-off: il suo mettersi a nudo lo rende il personaggio più autentico del film e paradossalmente il più lucido, in quando consapevole della propria alienazione e del suo essere visto come un folle dagli altri.
Il portavoce della comunità emerge nella figura del prete nel periodo del ricovero di Van Gogh presso l’ospedale psichiatrico di Saint-Remy. Il dialogo grottesco-nonsense che si instaura tra i due, assume i caratteri di un vero e proprio interrogatorio da parte del religioso: nonostante l’intenzione di quest’ultimo di umiliare Vincent, additando i suoi quadri come “inquietanti e sgradevoli”, il nostro protagonista viene mostrato dal regista newyorkese come il vincitore morale, che forte del proprio talento (donato dal divino) è convinto di venire apprezzato in un prossimo futuro “da persone non ancora nate”. Emerge così un’infinita fiducia riposta verso l’eternità, intesa come il tempo che deve ancora venire.
Van Gogh – sulla soglia dell’eternità non è solamente l’ennesimo film sul celeberrimo pittore olandese: Julian Schnabel, attingendo dal proprio immaginario, ritrae con sensibilità d’artista la figura di Van Gogh (ricordiamo che lui stesso è pittore e nel 1996 ha realizzato il film Basquiat). Il non rispettare le vicende a livello filologico vanno quindi collocate nella totale libertà con cui il regista rilegge la personalità (e la causa della morte) di una delle icone della storia della pittura. Lo sguardo di Schnabel è quello del pittore: ma a differenza del protagonista del film, i suoi dipinti sono apprezzati (e ben quotati nella scena contemporanea). Un finale diverso rispetto a quello che conosciamo (e che può far storcere il naso a chi si aspetta di vedere la conclusione dell’ennesimo biopic) si sovrappone alla voice-off di Vincent mentre scorrono le ultimissime immagini e la didascalia del “presunto” ritrovamento dei suoi 65 schizzi custoditi (senza saperlo fino al 2016) nel libro contabile presso l’abitazione di Madame Ginoux.
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