
Leaving Neverland, l’abuso oltre il concetto di star power
April 11, 2019Dopo l’anteprima al Sundance, Leaving Neverland è approdato sulle tv americane i primi di marzo, provocando uno tsunami mediatico che ha intrattenuto difensori e accusatori di Michael Jackson in merito agli abusi sessali da lui compiuti ai danni di giovanissimi individui di sesso maschile tra gli anni ’80 e ’90. Il titolo in oggetto non verrà ricordato come il documentario per eccellenza e, per la sua mediocrità di fondo, si avvia senza problemi verso il tramonto: fra qualche tempo nessuno se ne ricorderà più.
Detto ciò, è innegabile che nella sua lunga durata, 240 minuti (leggasi: quattro ore), l’immagine del Re del Pop venga scalfita, sì, ma neanche più di tanto. Tutto il mondo sa che Jackson è stato processato per violenza su minori, ma se da un lato la sua assoluzione presenta molti punti oscuri (merito di Leaving Neverland è indubbiamente quello di cercare di fare luce sulla questione), dall’altro è innegabile che lo zoccolo duro dei fan del cantante lo difenderebbero ancora oggi a spada tratta e al di là di quale sia la verità.
Pedofilo. Questa parola viene utilizzata soltanto nelle battute finali del film, dopo una lunga cavalcata durante la quale si assiste alle testimonianze approfondite di Wade Robson e James Safechuck, due vittime degli appetiti sessuali di MJ. Il loro sembra quasi un sordo grido di aiuto all’interno di un documentario che esce quasi dieci anni dopo la morte di Jackson. Viene da pensare dunque, perché solo ora? Il potere televisivo e radiofonico che aveva Jackson, ai tempi della sua carriera, era impressionante e “impreziosito” anche dalla mancanza di strumenti quali Internet: Jackson era un Dio in Terra, era un uomo dolce e gentile con i bambini perché – frase jolly usata fin troppo spesso – non avendo avuto un’infanzia, si accerchiava di questi bambini per cercare di carpire una spensieratezza che personalmente non aveva mai vissuto.
Retrospettivamente, viene da chiedersi: è possibile che a tutti fosse sfuggito l’ovvio? Com’è che nessuno si è posto due domande sul perché Jacko fosse perennemente circondato da ragazzini piccolissimi ovunque andasse (hotel, limousine, centri commerciali, il suo ranch)? Giovani anime sempre diverse dal momento che la star internazionale amava cambiarle ogni mese. Anzi, non cambiarle, bensì ruotarle a seconda dei suoi gusti e preferenze. Disgustoso, certo, come altrettanto da voltastomaco sono le dinamiche in gioco per Wade e James, dall’essere scelti come prediletti al vivere un conflitto emotivo (su cosa provare, amore? Colpa?) e competizione (nei confronti di chi li sostituisce di volta in volta). L’esperienza adolescenziale dei due intervistati è magica, sospesa tra la favola e il sogno. Un sogno che è anche un incubo, ma se ne rendono conto solo anni dopo.
Tornando ai media, che almeno agli inizi sono stati colpevoli di aver restituito al mondo un’immagine artefatta di Jackson, si può dire una sola cosa: a loro volta son stati plagiati dal carisma e dall’innegabile e straordinario talento musicale di MJ. Egli stesso faceva il lavoro per loro, fornendo informazioni da spiattellare su TG e giornali al fine di modellare un’icona dai tratti mitici e unici nel panorama discografico. Questo comporta un fatto non da poco: quando arrivano le cause legali per stupro, esse vanno bollate subito come tentativi di estorsione operati dai genitori dei bambini per racimolare un po’ di denaro.
Col tempo, anche i media smettono di difendere l’indifendibile. Chi invece si fa portavoce dell’innocenza di Michael Jackson sono i fan di tutto il mondo, i quali combattono in prima linea per proteggere il loro idolo. Chi la vince, alla fine? E soprattutto, ancora, perché fare uscire solo oggi un documentario così di parte? Leaving Neverland non è mai completamente fazioso, ma l’impossibilità di una replica da parte del diretto interessato rende difficile gestire le impressioni a fine visione. Sarà tutto vero quello che Wade e James raccontano? Parrebbe di sì, però l’ultima parola non la si avrà mai. O forse la si avrà solo quando (se mai accadrà) filmati pornografici e fotografie esplicite di MJ verranno riscoperte. Oppure anche no. Quel che resta, ora, sono due eterni soliloqui. Non di più perché altri non hanno voluto condividere i propri ricordi di fronte alla videocamera. Prendere o lasciare.
Se la prima parte del documentario si rivela solo come una semplicistica cronaca degli eventi, la seconda parte risulta più criptica; dopo aver fatto letteralmente a pezzi la figura di Jackson, le testimonianze di questi due ragazzi virano alla compassione, azzardando discorsi all’apparenza incoerenti: malgrado gli abusi subiti, nessuno dei due uomini riesce oggi a odiare Jackson e in passato sono anche stati in grado di deporre il falso o, peggio, non dire alcunché. Addirittura, la morte di Jacko ha causato in loro spirali depressive come se fosse venuto a mancare un parente o un amico, senza riuscire quindi a realizzare completamente che quella persona aveva fatto più male che bene alle rispettive esistenze.
Di Leaving Neverland, diventa palese una natura abbastanza ambigua, come la necessità di soffermarsi sulla psiche rotta di questi due adulti che hanno cercato di procedere con il proprio futuro (mogli, figlie, professioni), nonostante quel che hanno vissuto da giovanissimi. Questo potrebbe essere stato un punto interessante su cui basare il resto del racconto, ma si rimane come bloccati in quei fastidiosi capisaldi della narrazione: Jackson era un pedofilo, questi ragazzi sono stati toccati a vita e le loro madri quasi vorrebbero morire per non aver mai capito nulla. Come spesso accade, la verità è nel mezzo, tra una dichiarazione fin troppo gonfiata che si bea dell’impossibilità di replica da parte di Jackson e la consapevolezza che il cantante sarà stato anche una brava persona, ma la notte godeva a vedere e toccare le natiche di bambini e di cambiarne, nell’ordine della sua preferenza, uno ogni dodici mesi. Lo schifo si fa breccia nello spettatore in maniera spontanea, ma poi, che fare?
Un documentario sfuggente Leaving Neverland (su tema analogo, si consiglia vivamente la visione del sottovalutato Paterno e dell’incensato Spotlight), quasi quanto il personaggio che mette in croce e la stessa ricerca della verità, che si perde nel cielo come una piuma che volteggia in una tormenta: la vediamo e sappiamo tutti che è lì, ma nessuno riesce ad afferrarla senza rischiare di farsi male.
(Articolo a cura di Gabriele Barducci e Simone Tarditi)
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