
Cannes72: I morti non muoiono, se lo zombie s’infiacchisce
May 24, 2019La materia dello zombie movie non andrebbe mai maneggiata con leggerezza. Quando Edgar Wright, nel 2004, diresse Shaun of the Dead, dimostrò che era possibile rinnovare il genere creando un immaginario vivace, contestualizzato al nuovo millennio. Da ottimo nerd, Edgar Wright ha realizzato una commedia coscientemente sgangherata (a tratti demenziale), equilibrando con abilità la risata catartica al gore delle budella impiastricciate, riuscendo pure ad intrufolarci un’accattivante riflessione post hoc sullo zombie neoliberista, portandosi sulle tracce delle pregresse pellicole che hanno formato il genere. Zombi di George Romero, con l’uomo divenuto non-morto nella società del capitale, e Zombi 2 di Lucio Fulci, con l’uomo richiamato in vita dalle tracotanza della scienza, sono tra i più illustri esempi di un cinema imperniato sull’impellenza di comunicare un ribollire politico, che solo entro certi limiti poteva essere contaminato (e l’eros, come immagine speculare dell’orrore, era la materia privilegiata).
Nulla, di tutta questa matrice storica, è presente nel film di Jim Jarmusch. The Dead don’t die, presentato in apertura a Cannes72, è una coscienziosa, premeditata rinuncia all’eredità dello zombie movie. La premessa è quella di un gioco goliardico, una boutade cinematografica, la radicalità dell’intento di trasformare lo zombie in una creatura jarmuschiana che, già di per sé stereotipo, finisce col divenire uno stereotipo al cubo e, in definitiva, una carnevalata di dubbia riuscita (soprattutto considerando il precedente, efficacissimo esperimento con la materia vampiresca in Solo gli amanti sopravvivono).
Un cast pompatissimo e infiacchito dal tempo e dalle esalazioni cadaveriche della pellicola: Bill Murray in un implacabile requiescat di se stesso; Adam Driver plastico, atarassico e inumano nella propria convinta trasformazione jarmuschiana dai tempi di Paterson; Chloe Sevigny isterica ed irrazionale come nelle migliori pellicole horror di serie B; Tilda Swinton in una caricatura killbilliana a tratti grottesca, mai convincente.
Attorno, la piccola cittadina di Centerville con gli amabili connotati dell’America profonda, distorti dall’atmosfera lynchiana che pervade la pellicola dai primissimi istanti: gli officers impomatati, il diner con damigiane di caffè, la selva che avvolge i comignoli delle impeccabili abitazioni, il nerd gestore del gas a basso costo. E subito la scelta del ritmo lento, surreale, denso di sospensione e della canzone composta ad hoc da Sturgill Simpson che ripete il titolo del film; e già la ricostruzione mentale del gore, mentre si susseguono gli sguardi sospettosi dei bigotti abitanti del village, che cela innominabili segreti (furti di polli o un cadavere Laura Palmer-like).
Poi animali che spariscono, frequenze radio che saltano, l’attesa per l’apocalisse zombie. Intanto, subentrano elementi che chiariscono la portata del dramma (non già del film, ma delle sue irreversibili lacune): sparuti accenni ad un ipotetico surriscaldamento globale che sarebbe alla base della rivolta dei morti viventi; la comparsa dello zombie Iggy Pop (RIP Coffee and sigarettes) che reclama un caffè; uno sbudellamento impacciato che tronca ogni possibilità di pathos ed archivia in via definitiva la speranza della rappresentazione del macabro; la sequenza del ritrovamento dei primi cadaveri, contenente una scena dalle enormi potenzialità comiche e che invece si consuma in un andirivieni sciatto e noioso; l’aggiunta sospettosa di elementi di scrittura che deragliano in vicoli ciechi (la parabola mozzata dei ragazzini in orfanotrofio e quella sconclusionata degli hipster che giungono in paese); la voce fuori campo del moraleggiante Tom Waits, che dovrebbe erudire l’incolto spettatore sui significati dell’opera; multiple citazioni piazzate un po’ ovunque, infarcite di metacinema, col fare disinvolto e afinalistico dei quadretti postmoderni: The Dead don’t die è una burla in cellulosa studiata a tavolino.
A prescindere dal cuore disimpegnato del film, l’approssimazione risiede nelle disarticolazioni strutturali, le lacune tremende di scrittura, i dialoghi rattoppati (neanche stereotipati), la risata abortita da grossolani errori di tempistiche, ma soprattutto la sgradevole sensazione di avere a che fare con una idea (anche buona), gettata con pigrizia al solo scopo di citare, accennare, scribacchiare senza convinzione. Gli zombie vaganti per le strade alla ricerca del Wifi con lo smartphone in mano non sono materia tanto accattivante (basta affacciarsi dalla finestra) senza adeguata contestualizzazione; questo post-zombie che ha assorbito le meccaniche più spiacevoli della globalizzazione, con la conseguente miseria valoriale, unitamente all’atmosfera sinistra che il film promette dall’inizio del dispiegamento della trama (mai davvero dispiegata) avrebbe avuto un ottimo potenziale se inserito in una cornice meno sciatta.
Sembrerebbe esserci la volontà di raccontare una destrutturazione cinematografica, l’impossibilità di realizzare un’opera compiuta davanti al decadentismo antropologico di inizio millennio (simil-zombie anche quello); oppure il desiderio di realizzare siparietti comici con la crew che ha accompagnato l’autore nelle precedenti opere, come un revival nostalgico/cameratesco di debolissimo spessore; oppure la visione Jarmusch-mediata di un mondo senza logica, di derive d’estremismo e di irragionevolezza.
Qualsiasi fosse l’intento, pur nella idea d’aver rintracciato un senso, una direzione, in un’opera tanto palesemente approssimativa, resta la constatazione, irrevocabile, che The Dead don’t die non diverte, non spaventa, e non problematizza. Purtroppo, nel suo scardinamento, finisce con l’annoiare.
- Tre piani: quel che resta di Moretti - October 18, 2021
- Un altro giro di Thomas Vinterberg: dell’esistenzialismo contemporaneo - May 18, 2021
- Galveston: il cinema e la morte secondo Mélanie Laurent - February 23, 2021