Il Cinema Ritrovato 2019: Hanyeo – The Housemaid di Kim Ki-young

Il Cinema Ritrovato 2019: Hanyeo – The Housemaid di Kim Ki-young

June 25, 2019 0 By Mariangela Martelli

Il Cinema Ritrovato di Bologna, giunto alla sua XXXIII edizione, è l’appuntamento imperdibile per vecchi e nuovi cinefili che hanno solamente l’imbarazzo della scelta tra le varie proiezioni restaurate. Tra le sezioni proposte quest’anno, anche una retrospettiva dedicata al cinema sud-coreano: focalizzata sui primi registi-autori (Kim Ki-young, Yu Hyun-mok, Shin Sang-ok, Lee Man-hee e Kim Soo-yong) che durante gli anni ’60 furono i protagonisti di una “nouvelle vague orientale”; le loro pellicole innovative hanno contribuito alla creazione di una filmografia nazionale e a gettare le basi per la generazione successiva di cineasti (Kim Ki-duk,  Park Chan-wook, Lee Chang-dong).

Hanyeo – The Housemaid (하녀) realizzato da Kim Ki-young nel 1960, è il primo capitolo di una trilogia, basata su due remake realizzati dal regista stesso (Hwanyeo del 1971 e Hwanyeo ’82 del 1982). Considerato tra i film coreani della modernità, Hanyeo – The Housemaid ha influenzato anche il cinema post-moderno: il connazionale Im Sang-soo ha realizzato nel 2010 un remake omonimo, re-interpretando il soggetto in modo più esplicito e modificandone le dinamiche diegetiche. Nella versione originale, entriamo subito nell’intimità della famiglia Kim: l’occhio dello spettatore coincide con quello voyeuristico della macchina da presa che oltrepassando dall’esterno le grate della finestra, va a collocarsi nel salotto dove sono riuniti i quattro componenti. La conferma dell’idea dello “stare in gabbia” ci viene data nel ravvicinato dei due figli, che intrecciando dei fili tra le mani, ri-configurano nuove forme. Intanto il padre Kim Dong-sik (Kim Jin-kyu) inizia a raccontare la trama del film, utilizzando come pretesto l’articolo di cronaca riguardo un caso di adulterio commesso da un marito con la propria domestica. I Kim hanno da poco traslocato nella nuova abitazione, infatti all’inizio ci sono ancora i lavori di ristrutturazione. La signora Kim (Ju Jeung-nyeo) una stacanovista, sempre china sulla macchina da cucire, vede nella nuova casa una tappa dell’ascesa borghese da lei sognata, a cui presto aggiunge un altro obiettivo per lo status-symbol familiare: la televisione.

Risparmi e sacrifici coinvolgono anche il marito, un insegnante di pianoforte nel circolo musicale (frequentato dalle operaie durante il dopo-lavoro) che presto inizia a cercare una domestica per alleviare la moglie dalle fatiche della casa. La signorina Cho Khyung-hee (Eom Aeng-ran), un’operaia che prende lezioni private di piano dal Signor Kim, gli propone Myung-sook (Lee Eum-shim) una ragazza di umili origini, definita come “una poco sveglia ma una gran lavoratrice”. La futura domestica, nonostante sia presente nelle inquadrature nel corridoio della fabbrica (dove le operaie si fermano per una pausa) non viene mostrata direttamente, se non di spalle e sullo sfondo mentre sta pulendo. Dobbiamo aspettare che la macchina da presa ne sveli il volto quando la compagna Cho la sorprende nel ripostiglio dove si era nascosta per fumare. In questo modo “inquadriamo” subito Myung-sook come una viziosa, insofferente alle regole imposte: il suo essere “irregolare” viene confermato una volta a servizio presso i Kim, mettendo in dis-ordine l’equilibrio del microcosmo familiare.

La giovane appare ingenua e ambigua ma il suo obiettivo (sedurre il Signor Kim) è rivelato quando ricatta la rivale Cho, dopo averla spiata durante la lezione privata. La casa ha un ruolo da protagonista in questo film ambientato quasi sempre in interni: le quattro mura hanno l’effetto di soffocare i suoi inquilini, le cui intenzioni e azioni trovano qui il luogo ideale per mettere in scena conflitti, intrighi di potere (femminile) e la lotta per la sopravvivenza. La claustrofobia e rarefazione dello spazio sono resi a livello figurativo grazie all’utilizzo espressionistico della fotografia in bianco e nero, le cui luci e ombre originate nelle stanze chiuse, animano le pulsioni dei personaggi. La scala, sebbene posta nel cuore del “focolaio domestico”, si trasforma in una trappola mortale: elemento scenico per eccellenza in molte pellicole di genere (noir, horror e melodrammi) sottolinea i momenti drammatici (qui accompagnati anche dalla musica extra-diegetica, pioggia e fulmini). Gli utensili della ristrutturazione, posati sui gradini, ostacolano la figlia maggiore claudicante (il padre sebbene la noti in difficoltà, preferisce non intervenire, lasciando che ce la faccia “con le proprie forze”). La scala ha inoltre la funzione di collegare gli ambienti della casa: il piano terra e quello superiore sono due mondi opposti che co-abitano sotto lo stesso tetto. Il primo, una sorta di regno dell’ordine, è lo spazio in cui la Signora Kim esercita il potere-ruolo di moglie e madre (tra la sala, camera da letto e la cucina); l’altro è la zona dell’illecito dove la domestica può muoversi indisturbata, attirando a sé il Signor Kim tra la sua camera e la stanza della musica.

Gli istinti oltrepassano i confini, il territorio viene marcato dall’avidità e il desiderio di possesso si estende all’intera abitazione. In mezzo ai due poli pulsionali, rappresentati dalla Signora Kim e Myung-sook vi è il Signor Kim, la cui attrazione verso la domestica lo fa sprofondare nella confusione: in balia del morboso e della vertigine, in un’ossessione destinata a risolversi quando Eros finisce in Thanatos. La libera sessualità della giovane si contrappone alla frigidità della moglie: quando quest’ultima chiede al marito di concepire “il terzo figlio” sembra più per assolvere al proprio ruolo; la sessualità liberata del Signor Kim, invece, attraversa varie fasi: dalla complicità verso Myung-sook, che attraverso l’offerta di una sigaretta, esibisce l’intenzione di farsi anche lui “trasgressore delle regole” al successivo invito esplicito della domestica a commettere adulterio, che una volta consumato fa piombare l’uomo nel senso di colpa. Un certo feticismo nella composizione dell’immagine si ha nei ravvicinati e frammenti sparsi di dettagli: dagli oggetti d’uso quotidiano ai piedi scalzi della giovane amante. Inoltre, le mani intrecciate di lei dietro la schiena dell’uomo-preda rimandano al motivo iniziale del gioco di fili e plasmano il nuovo ordine: tutti sono presi nella morsa, come animali in gabbia, ostaggi in casa propria. Kim, l’unico uomo all’interno della pellicola, è l’oggetto del desiderio dei personaggi femminili: oltre alla domestica ricordiamo la giovane operaia allontanata dalla fabbrica per avergli scritto una lettera d’amore (e poi suicidatasi per lo scandalo) e la Signorina Cho, che pur di gravitare attorno al Signor Kim finisce per ritrovarsi coinvolta nelle dinamiche della casa.

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Il veleno per topi è l’oggetto-simbolo del modo con cui viene esercitata la crudeltà e allo stesso tempo è la causa di una serie di equivoci (legati al suo utilizzo o meno). È lo strumento scelto dalle protagoniste per allontanare l’estraneo: dai topi alla rivale in amore. Non basta nasconderlo in un contenitore all’interno delle ante in cucina (e seguire il monito del padre ai figli di prestarvi attenzione) perché la sostanza letale, è di fatto, accessibile a tutti. La presenza dei roditori segnala come una dose di sporcizia, sfuggita alle cure domestiche della moglie, emerga in concomitanza con le pulsioni e istinti (mal) celati sotto la patina della famiglia perfetta. L’immagine dell’agonia dei due topi su un piatto di riso avvelenato ci pre-annuncia gli sviluppi della crudeltà. La vendetta, come un veleno, contamina tutti: nessuno è immune ai ricatti, invidie, gelosie e menzogne.

Le convenzioni morali-sociali dei Kim si ibridano con i desideri morbosi di Myung-sook, che come la Signora Kim rimane incinta: riguardo la gravidanza dell’amante il Signor Kim è in parte reticente (allude il fatto alla moglie, ma omette l’identità dell’amante). La rivelazione arriva con la musica fuori-campo: il silenzio, rotto dallo strimpellare della domestica al pianoforte, esplicita la presenza ingombrante dell’estranea tra i due coniugi. Le azioni fatte e subite non riescono a liberarsi dal circolo vizioso, alimentando il livello di tossicità dei legami tra i personaggi: i Kim sono spietati verso la domestica che ha abortito dopo la caduta dalle scale e non esitano a mostrarsi insensibili privando la donna di cibo e acqua, il figlio minore dei Kim schernisce la camminata faticosa della sorella, mentre entrambi i ragazzini fanno fronte comune contro Myung-sook, trattandola al pari di una schiava.

La perfidia passa di mano in mano, facendo agire i personaggi nell’ombra, inquinando le prove con le mezze verità: un esempio di opacità è nell’ellissi diegetica che non mostrando la domestica versare la sostanza nel bicchiere (poi offerto al figlio minore) ci fa mettere in discussione la successiva confessione della donna, che in un gioco di paradossi arriva a contraddirsi e a smentire l’azione. L’intera struttura del film è racchiusa all’interno di ripetizioni, sostituzioni e riflessi: spesso le immagini sono raddoppiate: il volto della moglie si specchia nel brodo, quello del marito nel pianoforte, quello della domestica sul vetro della finestra e la scala, racchiusa nel bicchiere, diventa liquida. La duplicità dei personaggi è anche nelle due maschere appese al muro sopra al pianoforte che ri-configurando, in questo modo, il motivo dell’artificio iniziale. Prologo ed epilogo, aggiunti dal regista a pellicola ultimata, diventano la parentesi meta-narrativa in cui si sviluppa il racconto lineare fatto dal Signor Kim, che ri-allacciandosi al fatto di cronaca iniziale, finisce con il rivolgersi a noi-pubblico (con lo sguardo in macchina) per “farci la morale”, mettendoci in guardia dai rischi in cui possiamo cadere (se finiamo con il cedere agli istinti come i protagonisti). Kim Ki-young, sebbene riprenda la lezione di Buñuel e Stroheim, realizza un suo particolare cinema della crudeltà in cui realtà e finzione, in bilico sulla superficie, possono cadere da un momento all’altro.

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Mariangela Martelli