Pulp Fiction, venticinque anni dopo

Pulp Fiction, venticinque anni dopo

July 12, 2019 0 By Angelo Armandi

Pulp Fiction, quel piccolo film indipendente che veniva proiettato al Festival di Cannes nel 1994 e a cui nessuno aveva prestato particolare attenzione, si sarebbe infine rivelato una delle rivoluzioni cinematografiche più pregnanti della storia del cinema, e in termini di eredità capillare nel corso delle generazioni, e rispetto all’esperienza cognitiva della visione.
La matrice pop di Pulp Fiction ha consentito a qualsiasi tipologia di pubblico di venire a contatto con la iconografia del film, potente propulsore della mitopoiesi di cui si è nutrita l’opera nel corso del tempo, ingigantendosi e fagocitando non solo le pellicole coeve, ma persino gli aspetti meno appariscenti o pervasivi dell’opera stessa.

pulp fiction recensione

Il primo Tarantino, accarezzando l’esuberanza del pop, intrinsecamente legata alla natura pulp delle vicende narrate, già manteneva un impianto di genere che, lungi dal manierismo o pastiche, rielaborava gli stilemi in una ottica nuova, quasi avanguardistica nella apparente somiglianza al cliché, allo scopo di personalizzare il film al punto da oscurare la narrazione con la sovrabbondanza dell’autore. La successiva filmografia ha confermato le premesse iniziali: non esiste una reale parentesi noir (Le iene, Pulp Fiction, Jackie Brown) od una western (Bastardi senza gloria, Django Unchained, The Hateful Eight), bensì una parentesi tarantiniana in architetture filmiche più o meno canoniche.

Quello che venticinque anni fa poteva apparire come una volontà eversiva di stravolgere la narrazione classica, si rivela oggi come uno dei cardini della poetica di Tarantino, atta non tanto a compiacere le meccaniche del postmodernismo, quanto a comunicare l’intento di un cinema rinnovato, che mistifica il rigore nella natura volgare del genere, e dissimula nel genere una nostalgica aspirazione alle vestigia del cinema classico.
La trama di Pulp Fiction è un costante deragliamento dal fulcro, l’impellente necessità di diversioni e dilatazioni, una sovrabbondanza di dialoghi che non raccontano niente, se non il piacere stesso della parola, o l’autocompiacimento, o la citazione, allo scopo di creare l’illusione di una vaghezza, di una costante fuga mercuriale, di inafferrabilità, di screpolatura temporale.

L’overlapping dei dialoghi mutuato dalla screwball comedy (le digressioni afinalistiche mentre Mia Wallace è in overdose nell’appartamento di Lance), la profondità di campo e le inquadrature dal basso del noir, la presenza dell’oggetto feticcio a distrarre l’attenzione, i continui cambiamenti di tono, la preponderanza di discorsi laterali (la spiegazione di “episodio pilota” di una serie televisiva, il Royale con formaggio, la declamazione di Ezechiele 25,17), le esplosioni di violenza efferata dell’exploitation afroamericano, l’umorismo nero che interviene a mitigare/esasperare lo splatter inaspettato, registri linguistici differenti che s’intrecciano in un unico linguaggio proteiforme: la superficie pulp dell’opera potrebbe essere direttamente riconducibile a quella carta di pessima qualità di polpa di legno da cui origina il nome, su cui venivano stampate le storiacce criminali pubblicate a puntate, e certamente così è stato, ma probabilmente più per volontà di restituire all’immagine in movimento le medesime sensazioni accarezzate su carta, che per mera esibizione di una moltitudine di riferimenti a scopo goliardico o citazionistico.

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Il successivo cinema di Tarantino ha confermato come la cinefilia dell’autore sia una parte rilevante, ma non preponderante nella genesi dell’opera. Come noir sui generis, Pulp Fiction si inserisce tra i più interessanti esperimenti di rinnovo del genere, mantenendo e al contempo decostruendo gli aspetti topici del polar (l’intoccabile capo sodomizzato, il sicario ammazzato all’uscita dal bagno), mentre la circolarità della trama suggerirebbe (oltre quell’effetto cataclismatico, mai esperito prima dalla gran parte del pubblico negli anni Novanta) il tema cardinale della temporalità.

Ben al di sopra del chiacchierato MacGuffin, il vituperato orologio degli antenati di Butch è il vero promotore della vicenda, che si regge sulla imprevedibilità degli eventi, sulla impossibilità di governare il presente e direzionare il futuro, e non è casuale che la genesi dell’orologio, nella scena madre/flash back del film, sia affidata ad un pilastro del cinema classico: Christopher Walken.

Nessun regista, in effetti, coniuga classicismo e innovazione (ed una contaminazione irrefrenabile di generi e ispirazioni) con la medesima armonia di Tarantino: se The Hateful Eight è carpenteriano, ma ha l’impianto roadshow degli anni Cinquanta, Pulp Fiction è melvilliano (i sicari implacabili, l’erotismo sotteso della moglie del boss), ma anche godardiano (il twist che rimanda inevitabilmente a Band à part), e Bastardi senza gloria è leoniano (l’ingresso in scena dell’Orso Ebreo), ma anche corbucciano, e nell’ambito delle singole opere gli ammiccamenti al pauperismo del genere (la sparatoria finale in Django Unchained) sono brillantemente bilanciati da sequenze di toccante eleganza (la tavola apparecchiata sulle note di Elisa in Django Unchained) ad altre che, per conformazione e maestria nerd di Tarantino, sono paradigmi di videoclip (l’arrivo di Vince Vega in casa Wallace sopra Son of a Preacher Man in Pulp Fiction).

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Venticinque anni dopo, Pulp Fiction non è il divertissment di chi ricerca il citazionismo come cifra della poetica di Tarantino, la cui sterminata cultura cinematografica inevitabilmente si riversa nel suo cinema (il rimando a Pabst nella scena della taverna in Bastardi senza gloria). Il recupero della narrazione classica nel secondo Tarantino ha gettato le basi per una più consapevole valorizzazione poetica retrospettiva. Se Pulp Fiction è il rebetiko di Mirislou fuso nello switch radio al funk di Jungle Boogie, è altrettanto vero che la matrice pulp è stata infine scrostata via dall’opera, residuando la perfetta simbiosi tra il recupero della classicità e il rinnovo del genere, la meticolosità della scrittura e l’esplosione di riferimenti culturali, la poetica sbriciolata dietro il clamore e la volontà, al di sopra di ogni cosa, di regalare una straordinaria esperienza cinematografica.

Angelo Armandi