
Toro Scatenato: la bestia nell’arena
September 27, 2019Jake La Motta sferza colpi nell’aria saltellando sul ring, è massiccio e si muove come se fosse più leggero di una piuma. Concentrato, non distratto, senza preoccupazioni. La folla lo acclamerà a gran voce, i flash squarceranno lo spazio attorno a lui per sparire subito, ricomparendo identici a se stessi altrove, più lontani e più vicini. Il pugile è avvolto da un accappatoio leopardato. Un novello Ercole con addosso la pelliccia di una fiera uccisa, ma anch’egli è nient’altro che una bestia feroce, assetata di sangue, desiderosa di combattere fino allo stremo delle proprie forze perché ne va della sua sopravvivenza.
Toro scatenato, ancor prima di essere un grande film sulla boxe, è –in totale vicinanza con gran parte della filmografia di Martin Scorsese– il racconto della vita di un uomo che si erge sulle difficoltà, le supera un po’ per caso un po’ per bravura, arriva in cima, poi lentamente scivola, ridiscende in basso e lungo tutto questo franare a un certo punto si ferma e lì termina i suoi giorni. Spesso ritorna al punto da cui è partito (Casinò), altre volte reinventa la sua professione dopo aver perso tutto (The Wolf of Wall Street), altre ancora tortuosamente giunge alla destinazione che si è prefissato fin dall’inizio (Re per una notte). Perdita, trasformazione, guadagno, cambiamento.
In più di un’occasione sentiamo La Motta lamentarsi dell’epiteto con cui è solito essere etichettato dalla comunità: animale. Il Bronx della prima metà del Novecento pullula di italo-americani, di emigrati trapiantati negli USA e di figli nati sul suolo americano da genitori stranieri. La xenofobia serpeggia tra chi è arrivato prima e pensa di essere il depositario di valori presi in prestito dalla patria d’origine. Tutto va a formare quel gran melting pot che sono gli Stati Uniti, modello per il futuro europeo, ma l’ultimo a essere sbarcato viene ancora identificato come “diverso”, per non dire cognitivamente sotto-sviluppato se non riesce a esprimersi perfettamente nella lingua che lì si parla.
La Motta vive il complesso di essere messo al pari di un sub-umano non per essere più stupido di altri (in linea di massima, non lo è affatto), ma per non saper gestire la sua violenza, la rabbia e gli istinti primordiali. Lo vediamo distruggere una cucina e malmenare la sua prima moglie a causa di una bistecca poco cotta, stendere al tappeto la sua seconda sposa per una frase di troppo, picchiare il fratello (nonché manager) perché crede abbia avuto una storia con la sua donna, infine distruggersi mani e testa sulle pareti della prigione nella quale viene sbattuto.
Lontano dal ring, Toro scatenato indaga la regressione del suo protagonista per quella che è: un dato di fatto, una condizione dalla quale non può uscire. Jake La Motta detesta essere definito un “animale” perché sa di esserlo fino in fondo, sa di non essere niente più di quello. Una bestia indomabile, però, che dà ordini e non ne accetta. Una bestia che sa fermarsi e conservare le forze, quando per esempio decide di non fare sesso prima di un combattimento perché altrimenti perderebbe le energie necessarie per vincere. Una bestia che detesta essere sfruttata da chi si fa i soldi sulle sue spalle senza rompersi le ossa o spaccarsi la schiena. Una bestia che si rende conto di stare invecchiando nella maniera più evidente, ossia prendendo peso, e che per questo motivo teme di essere soppiantata da una creatura più giovane, veloce, snella.
Ritratta in totale opposizione sul piano fisico (lei biondo platino e magrissima, lui dai capelli corvini e dalla corporatura tutt’altro che filiforme), Vickie subisce la brutalità di Jake, uomo violento e dalla scarsa sensibilità, ma al contempo sa di aver scelto l’animale più forte del reame. Nel suo campo, un vincente. Fuori da quello, un pessimo marito. Pertanto, la stessa protagonista è contraltare di quel che La Motta incarna: lui è la belva dominatrice, lei è la donna sottomessa all’interno di una società patriarcale di tipico stampo italiano (non può andare dove le pare da sola, dev’essere sempre accompagnata in giro, non può pensare o dire quel che le pare, deve stare zitta e abbassare lo sguardo a comando, e via discorrendo). In questo contesto, l’evoluzione sembra essersi fermata a duecento anni prima.
Dietro a un tot numero di vittorie si nasconde un altrettanto grande numero di sconfitte, personali o professionali che siano. Dopo aver dato ripetutamente prova di essere il migliore di tutti, anche per La Motta giunge il momento di lasciar il trono a qualcun altro e parallelamente darsi da fare perché non tutti possono campare di vecchi successi. L’ultima sezione di Toro scatenato riprende la primissima, quella che mostra il pugile ormai invecchiato, ingrassato, tenuto in piedi dagli alcolici e chissà cos’altro. Il tempo è passato e l’animale non è semplicemente più quello che era. La Motta si risveglia da un letargo sportivo lungo una decina di anni (match su match, lividi, premi, gloria, attese, fama assaporata e poi gustata) e, guardandosi attorno, si rende conto che nel frattempo l’America è cambiata, quel mondo non gli appartiene più, ma ci deve convivere. Ha perso quasi tutto, ma soprattutto non gli resta più nulla d’importante, nulla di ciò che l’ha reso quello che è, nulla di quello che un tempo lo rendeva vivo e che dava senso al suo esistere. L’opera può anche finire e il personaggio uscire di scena.
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