
Luna di fiele, autodistruzione e impossibilità di amarsi
December 13, 2019Luna di fiele, tra le opere di Roman Polanski meno studiate dagli storici, si inserisce in maniera talmente prepotente nella riflessione sui rapporti interumani, avviata con Il coltello nell’acqua, e forse mai davvero abbandonata, al punto da rappresentarne una delle vette più nobili.
Luna di fiele è un perfetto gioco di specchi, di complementarietà tra umani nascoste dietro la patina del formalismo: il binomio Nigel (Hugh Grant) – Fiona (Kristin Scott Thomas) e il binomio Mimi (Emmanuel Seigner) – Oscar (Peter Coyote) costituiscono il medesimo substrato, che è venuto a contatto in maniera più o meno preponderante con la parte più viscerale della propria coscienza; dove la prima coppia è incagliata in un discorso di conformismo che coniuga le convenzioni alla falsa morale, la seconda è invece approdata alla consapevolezza della bestialità racchiusa in un sentimento. L’opera si propone quindi come romanzo di formazione, in senso strettamente, pessimisticamente polanskiano: dove Nigel è l’individuo castrato dal matrimonio, costantemente interrogandosi sulle ragioni della propria insoddisfazione, della propria sottaciuta infelicità, il complesso Mimi-Oscar è la risposta incarnata, l’impossibilità della redenzione, l’esperire il costante stillicidio autodistruttivo del rapporto d’amore.
L’incubo della relazione, del sentimento contrattato, o piuttosto l’angoscia che ne deriva (Eraserhead), costringe il buon Nigel alla soppressione degli istinti e all’addomesticamento, da cui l’invidia per la presunta liberà degli istinti sessuali, per la seduzione della lascivia. Non tanto, infatti, l’idea del desiderio sessuale, o il legittimo fantasticare di corpi e fluidi, quanto la prospettiva della proibizione, del voyeurismo interiore (Velluto Blu), della colpa insita in una certa ideazione lussuriosa (la cui matrice è ben nota).
Si tratta, quindi, della rivoluzione copernicana della relazione: la responsabilità di un rapporto, l’equilibrio tra diritti e doveri, quasi una legislazione interna tra due individui che impone compromessi, rinunce, pazienza, viene rigettata con forza, in quanto predittore incontrovertibile di aridità, a scapito di quell’anarchia, di quell’agognare di corpi e pratiche, scaturiti essenzialmente dall’infantilismo. L’autenticità della legge, in senso quasi vittoriano (Dracula di Bram Stoker) è rigettato in favore della costante imposizione dell’individuo sulla coppia.
Quale infantilismo? Ci sono almeno due infanti, in questa parabola (se si esclude l’approccio repressivo di Nigel). Il vero fanciullo è Mimi (anche qui in sottoveste precoce di dea, prima dell’affermazione in Venere in pelliccia), che, come ha modo di dire Oscar, racchiude in sé la maturità sessuale e l’ingenuità del bambino. Mimi è una massa proteiforme, infuocata, vergine al sentimento, animata da positività d’intenti e fiducia per gli uomini (lo sguardo sornione e al tempo compassionevole di Polanski è tangibile), e viene a contatto con un individuo altrettanto infantile, in maniera del tutto speculare alla donna: Oscar è più maturo d’età, mediocre nella vita (scrittore mai affermato) e incapace di amare (dove per amare non si intende la luna di miele degli inizi, quanto la capacità di gestire la successiva, potenziale luna di fiele).
Oscar, che per colpa della propria immaturità di sentimenti non è in grado di avere una immaginazione produttiva per elaborare un romanzo, infetta le carni e lo spirito di Mimi, al punto da trasformarla in un mostro (in questo senso, Mimi non è tanto diversa da Martin Eden, che senza la cultura avrebbe mantenuto quella spontaneità e bellezza del marinaio delle origini). S’intrufola Polanski nel discorso di coppia, seminando il dubbio nel legittimare la crudeltà di Oscar, e sintetizzando in una frase una intera poetica: meglio troncare una relazione quando il sentimento è al culmine. E dunque, con la stessa lucidità del rasoio messo sul collo di Oscar (poi sanguinante) in una scena seminale del film, giunge la nobilitazione dell’infantilismo: la coppia, che non ha il coraggio di lasciarsi, prosegue nel discorso eversivo, erotico, sempre alla cima dell’elettrocardiogramma, finché non imbocca il terminale dell’inaridimento, senza mai davvero esplodere, un sottile stillicidio di autodistruzione, la noia dopo la curiosità svuotata.
Il diventare adulta, per Mimi, coincide con la coscienza della cattività, della disillusione, del rattoppare i cocci di cuore (la comprensione del male). Il suo volto nel parco, di sera, dopo uno degli ultimi dialoghi con Oscar, è l’altra immagine seminale del film; l’unione (poi trasformata in matrimonio) può esistere solo al prezzo della mostruosità: il perdurare della relazione, contrario alla natura dell’uomo, è la prigione in cui consumarsi quotidianamente, l’insieme di passione e crudeltà, gli unici aspetti della vita autentica.
Cosa sarebbe diventata Mimi, se non fosse diventata un mostro? Questo sguardo viene definitivamente precluso: Oscar rappresenta la sola tipologia di uomo esistente (anche l’impettito Nigel è un mostro dal volto candido) e qualsiasi innocenza viene irrimediabilmente perduta al contatto con la maturità. L’aspetto nichilistico del film (scagliato con implacabile freddezza, e sintetizzato nei fotogrammi finali, in cui la coppia Nigel – Fiona realizza la propria irrimediabile miseria) da un lato risiede nella futilità del tentativo di dar credito alla profondità di se stessi, dall’altro nella impossibilità dell’hic et nunc, o del corteggiamento dei fleurs du mal, poiché non esiste alcuna terza via: o si vive nell’attimo della vita autentica, e poi si muore, o non si vive affatto, e si sopravvive.
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